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Schegge di resurrezione, dal lebbrosario di Keiaien

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A venti minuti di macchina dalla Comunità cristiana dove svolgo il mio apostolato missionario, si trova il Keiaien (Parco dell’amore e del rispetto): un’Istituzione che ospita circa quattrocento persone, la cui età media è di 74 anni; tuttavia questo non è un ospizio per anziani.

Tutti coloro che avevano contratto la lebbra venivano portati qui da tutto il Sud del Giappone, soprattutto dalle isolette più lontane. Tali persone erano praticamente costrette a tagliare ogni legame con l’esterno, a cominciare dalla propria famiglia. Non pochi furono messi nell’Istituzione ancora giovani; alle coppie, una volta entrate, non era permesso di avere figli a motivo della malattia. Dal punto di vista sociale, non avevano alcun diritto; per timore del contagio erano segregati, isolati, non potevano uscire.

lebbra keiaien Sebbene fosse stata trovata la cura per la lebbra e dal 1943 essa sia stata dichiarata una malattia curabile, le conseguenze della malattia rimasero: deformazione della faccia, perdita delle dita, e della vista. In Giappone, la Legge di prevenzione dal contagio è stata abrogata solo cinque anni fa.

Ma più forte della lebbra, più forte della segregazione, è la forza di vivere che queste persone dimostrano.

Rispetto al passato (venti o trent’anni fa) ora escono liberamente, vanno a fare la spesa al supermercato in città, vanno a trovare figli e parenti, ricevono visite, insomma si danno da fare per cercare e creare qualsiasi tipo di contatto umano. Tra i quattrocento residenti di questo Istituto c’è diversa gente che appartiene ad una denominazione religiosa. Tra questi, il gruppetto dei cattolici conta una trentina di persone, ma a detta del personale sembra essere il più attivo e dinamico. Uno, a settant’anni compiuti, ha rinnovato la patente perché così può essere di aiuto agli altri più anziani di lui.

Un altro, che ha le dita rattrappite, lavora con l’argilla, la modella e ne fa dei vasi. Un altro, sebbene siano più le dita che mancano che quelle rimaste, suona l’armonio con i moncherini. A Natale e Pasqua addobbano sempre la chiesetta dell’Istituzione e loro stessi si vestono a festa: chi con kimono, chi con giacca e cravatta. Quasi tutti coltivano il proprio orticello, e spesso mi offrono la verdura che loro stessi con orgoglio coltivano. Potete immaginare la gioia che provano quando possono dare agli altri qualcosa di loro, fosse anche un mandarino.

Un’altra cosa che mi edifica è che non dicono mai niente contro il trattamento ricevuto, non si lamentano dello Stato, né del passato. Al contrario sono troppo impegnati a vivere pienamente i pochi anni di vita rimasti.

Il trovarsi a vivere insieme per vari anni fianco a fianco ha creato in loro un senso di comunità.

L’attuale capo dei cristiani è un uomo eccezionale nelle relazioni con gli altri. Tant’è vero che lo chiamano "shinpu no tamago", cioè "uno che ha la stoffa da prete". All’età di circa dieci anni gli viene scoperto un segno di lebbra al dito mignolo; gli viene proibito di andare a scuola. Anche al papà e al fratello vengono scoperti gli stessi sintomi, ma questi scappano mentre lui viene portato all’Istituzione. Qui viene adottato dalla gente residente. Vi rimane per una quindicina di anni e poi, dichiarato guarito, viene lasciato andare. Una volta uscito, si sposa, ha figli e conduce una vita normale. All’età di sessantacinque anni gli muore la moglie. Siccome i figli sono già tutti sposati e sistemati, lui decide di ritornare all’Istituto per aiutare quelli più anziani di lui. Questo come segno di riconoscenza per l’aiuto ed affetto ricevuti in giovinezza.

Sono ormai decenni che noi Saveriani prestiamo il nostro servizio a quella piccola Comunità all’interno dell’Istituzione.

Facendo a turno con un altro confratello, vado a celebrare la Messa domenicale. Alle 6.30 di mattina porto la Comunione a due ciechi e a chi è malato. Alle 7.30 celebro la Messa con gli altri. Sono persone di fede, costanti nelle loro pratiche religiose. Come segno concreto di risposta all’appello del vescovo di pregare per le vocazioni sacerdotali, ciascuno si è impegnato a pregare ogni giorno con il rosario per le vocazioni. Quando abbiamo i ritiri di zona per la Quaresima e l’Avvento vi partecipano al completo.

Anche al venerdì celebro la Messa con loro. Poi ci fermiamo a prendere il tè e fare due chiacchiere per circa un’oretta. A loro piace molto fare delle feste insieme. Ogni volta che ce n’è una, è uno spettacolo di amore e attenzione che hanno gli uni per gli altri. Se c’è da scartare una caramella, da versare il tè, da sbucciare il mandarino, da passare il cibo, quelli che son messi meglio (che hanno ancora le dita) anticipano i desideri degli altri.

Vista la loro avanzata età e la mia ancora giovane, è nato spontaneo un rapporto, nonno-nipote come loro stessi ripetono. Ora, mentre rifletto in maniera scritta su queste schegge di amore, segni di risurrezione, mi viene in mente una frase del Vangelo: "In verità: vi dico non c’è nessuno che abbia lasciato casa, fratelli o sorelle o madre o figli a causa mia e del Vangelo, che non riceva già al presente cento volte tanto" Marco 10, 29.

Mi domando se tra i manoscritti biblici scoperti a Qmran non ci sia un manoscritto o un rotolo di questo brano che abbia incluso anche la parola "nonni".

Il nipote missionario, p. Renato Filippini - Giappone



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