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Non c’era e non c’è posto per loro

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Maria “diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio” (Lc 2,7). Il Figlio di Dio nasce in una stalla perché non c’è spazio per lui. “Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto” (Gv 1,11). Dice papa Francesco: “Nei passi di Giuseppe e Maria vediamo le orme di intere famiglie che oggi si vedono obbligate a partire, le orme di milioni di persone che non scelgono di andarsene ma che sono obbligate a separarsi dai loro cari, sono espulsi dalla loro terra. In molti casi questa partenza è carica di speranza, carica di futuro; in molti altri ha un nome solo: sopravvivere agli Erode di turno che, per imporre il loro potere e accrescere le loro ricchezze, non hanno alcun problema a versare sangue innocente”.

In quella notte, l’Angelo apparve, fuori di Betlemme, ai pastori, evitati da tutti, disprezzati, considerati ladri, illegali e impuri, per il mestiere che facevano, per l’odore, per il modo di parlare. Proprio a loro, malvisti ed emarginati, “apparve una grande luce”. Ebbero paura, perché le autorità li avevano fatti sentire gente da respingere e da evitare. Dopo lo spavento, sentirono nel cuore una grande gioia: era nato, proprio per loro, il Salvatore. “Per loro, esclusi e scomunicati. Che Dio avesse pensato a loro! Sentirono sulla

ruvida pelle, lo sguardo di tenerezza di Dio. Quella tenerezza che riservavano ai loro greggi, Dio l’aveva per loro. Una tenerezza che li faceva sentire pensati” (A. Casati, Sulla terra le sue orme, il Margine).

E quando arrivano alla grotta, videro il Salvatore nella carne, fragile e debole di quel bambino, deposta dalla madre su una mangiatoia. Il Natale ci insegna che “Dio è nella carne viva e debole di ogni essere umano. Fascialo, prenditi cura. Come fa la madre. Non riduciamo il bambino della mangiatoia a un bambino di cartapesta”.

Diceva don Primo Mazzolari: “Se penso che a forza di mettere insieme Gesù bambini di cartapesta, non vediamo più i bambini di carne; se penso che possiamo far patire la fame a non so quanti milioni di bambini, quasi fossero di cartapesta anche loro; se penso che possiamo sparare, buttare giù bombe di due-quattro tonnellate, perché gli uomini sono di cartapesta; se penso che possiamo minacciare l’uso delle armi nucleari, perché gli uomini sono materiale umano, allora mi chiedo se è buono questo incantamento che ci procuriamo a Natale per distaccarci il cuore di carne dal cuore di carne del Natale (Gesù)”.

Per Francesco “nel Bambino di Betlemme, Dio ci viene incontro… Si offre perché lo solleviamo e lo prendiamo tra le braccia. Perché in Lui non abbiamo paura di sollevare e abbracciare l’assetato, il forestiero, l’ignudo, il malato, il carcerato. Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo. In questo Bambino, Dio ci invita a farci sentinelle per molti che, disperati e abbandonati, trovano le porte chiuse. In questo Bambino, Dio ci rende protagonisti della sua ospitalità”. Troppo spesso chiudiamo i cuori e le porte, tenendo lontani i poveri, considerati come gente che porta insicurezza, instabilità, disorientamento.

“Piccolo Bambino di Betlemme, il tuo pianto ci svegli dalla nostra indifferenza, apra i nostri occhi davanti a chi soffre. La tua tenerezza ci porti a riconoscerti in tutti coloro che arrivano nelle nostre città, nelle nostre storie, nelle nostre vite. La tua tenerezza rivoluzionaria ci persuada a sentirci invitati a farci carico della speranza e della tenerezza della nostra gente”.

 



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