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In un pomeriggio di maggio ho incontrato Elisa e Giovanni al ritorno dalla loro missione nelle Filippine. Per loro, è normale fare missioni di servizio. Sono scout e in più fanno parte del centro missionario diocesano di Taranto. Li ho intervistati alla radio.

Perché le Filippine?

Dobbiamo ricordare, innanzitutto, che alcuni mesi fa c’è stato il tifone “Hayan” che ha causato la morte di 12mila persone e 30mila dispersi. La città di Tacloban, epicentro del tifone, è diventata un cumulo di macerie. Noi eravamo nell’isola di Leyte, una delle oltre settemila isole dell’arcipelago Filippino, a circa 15mila chilometri dell’Italia. Qui si è concretizzato il progetto “la goccia”, pensato da suor Giustina Casula della congregazione della Madonna del Divin Amore.

In quanti eravate?

Oltre a noi e a suor Giustina, c’erano tre medici e un’infermiera.

Come si è svolto il viaggio?

Siamo partiti da Roma, dopo l’udienza con papa Francesco, il 26 febbraio, carichi di bagagli. Arrivati a Manila, dopo una breve sosta nella casa delle suore, abbiamo preso il volo per Tacloban. Abbiamo visto che l’aeroporto era ridotto a uno scheletro. Con il pulmino delle suore, siamo arrivati nella loro casa che era la base per tutte le nostre attività.

Cosa avete fatto?

Ci siamo prodigati soprattutto attraverso interventi medici in locali di fortuna: chiese diroccate, tende dell’Onu e strutture simili. La farmacia veniva creata ogni giorno, così pure le tre postazioni mediche a cui affluivano tante persone. Venivano da noi perché negli ospedali pubblici bisognava pagare; e se non si paga, si resta prigionieri fino ad aver saldato il debito!

E gli aiuti internazionali?

Dato che l’amministrazione della città era di colore contrario al partito di governo, gli aiuti non arrivavano e rimanevano nella capitale.

Siete andati anche in altri luoghi?

Certamente. Siamo arrivati nell’isola di Mindanao, dove abbiamo continuato il medesimo tipo di interventi medici. Spesso mancavano i medicinali e allora bisognava andare ad acquistarli nelle farmacie locali.

Com’era il clima tra voi volontari?

Ci si trovava ogni giorno a pregare e a riflettere sull’attività, nella convinzione che come laici missionari non si possono risolvere i problemi della gente, ma possiamo condividerli; così come eravamo convinti che fare esperienza di missione è ben altro che sentirne parlare.

In che lingua parlavate?

Eravamo in zona inglese e quindi era difficile comunicare (noi conosciamo abbastanza il francese). Ma ci siamo accorti che c’era un’altra lingua, facile da parlare: quella dei gesti, del volto, del sorriso. E allora tutto diventava più facile.

Un ricordo in particolare…

I ricordi sono tanti. Tornati a Taranto all’inizio di aprile, ci siamo accorti che - avendo già fatto un’altra esperienza in Burundi - ogni volta c’è sempre qualcosa di nuovo e bisogna essere disponibili a saper ricominciare da capo, affrontando le situazioni che arrivano. Soprattutto è l’incontro con le persone che ci arricchisce e ci fa crescere. È un consiglio che diamo a tutti.

Non abbiate paura di fare del vostro meglio per lasciare il mondo migliore di come l’avete trovato.



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