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Nel Congo si continua ad uccidere

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Nonostante gli accordi di Lusaka e gli appelli del Papa

La guerra continua a far vittime nel Congo; una guerra che non fa cronaca e che sembra volutamente tenuta nel silenzio e nella dimenticanza. Un altro "genocidio" più subdolo, ma non certamente meno grave, si sta celebrando nella Regione dei Grandi Laghi, con la complicità di potenze straniere. In questi mesi passati forzatamente in Italia sono stato sempre con le orecchie tese per poter captare le grida di disperazione e di angoscia di tante persone amiche del mio Congo.

Mi scriveva alcuni giorni fa una cara suora congolese: "L'atmosfera qui è quella di una calma molto apparente. La gente diventa sempre più apatica perché teme eventuali rappresaglie e ritorsioni d'ogni genere. Si continua a vivere alla giornata, con la speranza che un giorno tutto questo finirà". Ma quando finirà questa inutile ed insensata guerra? La mia gente non l'ha cercata, né voluta. Fin dall'inizio l'aveva definita guerra di invasione, e non l'ha mai accettata come guerra di liberazione. La mia gente è per la pace".

Come si è pregato con tanta fede, la nostra comune Mamma del cielo, la Regina della pace, per domandare questo grande dono! Rivedo il volto dei miei cristiani, lo snodarsi delle dita sui grani del rosario, risento l'accorata domanda nella recita dell'Ave Maria. Questa guerra, che non riuscirò mai a capire, non fa che portare ogni giorno morte, distruzione, ferite profonde che difficilmente si rimargineranno.

La Diocesi di Kasongo è distrutta al 90%. È in balia degli umori delle diverse frazioni formate dalle truppe dei governativi, degli invasori e della guerriglia Mai-Mai. A Kipaka più di cinquecento case sono state bruciate e distrutte con tutto ciò che c'era dentro. Il piccolo ospedale, tenuto dai protestanti e molto frequentato, è stato saccheggiato, sono le sole mura a restare in piedi.

La missione cattolica non è stata risparmiata. Era il boccone più appetitoso. Abbiamo vissuto giorni di ansia e di  preoccupazione per la sorte dei missionari e soprattutto per uno di loro, ferito ad un piede. Sotto i loro occhi la furia  devastatrice della guerra aveva imperversato tra minacce e violenze d'ogni genere. Attualmente rimane ancora chiusa, custodita da un gruppo di cristiani.

Wamaza, Mingana, Lulingu, Kampene, Kibangula, Moyo, Kalole, Kinkungwa, Kalima non sono state da meno. Una furia programmata contro la Chiesa. Le umiliazioni subite dal vescovo Mgr. Kaboy, prigioniero delle forze governative, accusato ingiustamente. Mi scrive un giovane: "Siamo stanchi. La vita è diventata impossibile. Viviamo alla giornata. Tante sere vado a dormire senza aver mangiato nulla. Siamo stanchi di sperare. Siamo stanchi di sentire le belle parole dei nostri politici. Perché questa guerra continua ancora a spargere tanto sangue innocente? Siamo stanchi di vedere tra le nostre mura soldati stranieri. Il Congo è il Paese dei miei antenati. Il Congo è il Paese che Dio mi ha dato. Il Congo è il Paese dove sono nato. Il Congo è dei congolesi e non lo lasceremo mai dividere in tante fette".

Da più di due mesi la preoccupazione è accresciuta. L'arcivescovo di Bukavu, mons. Kataliko, il febbraio scorso, tornando da Kinshasa dove aveva partecipato ad una riunione del Comitato Permanente dei Vescovi Congolesi, fu impedito di rientrare a Bukavu. L'accusa, molto vaga, era quella "di incitamento all'odio" nel messaggio che aveva rivolto ai cristiani per il Natale. Da novembre 1998 la cittadina di Kasongo è nelle mani della "ribellione" guidata dalle truppe ruandesi, ugandesi e burundesi. Stavamo venendo fuori dalla prima guerra con tanti stenti e anche con tanti interrogativi, ci trovammo subito nel bel mezzo di un'altra guerra, voluta dalle forze che si erano coalizzate a portare lo "sconosciuto" Kabila al potere. Una guerra che fin  dall'inizio ha mostrato il suo volto, come di un qualche cosa che veniva manovrato dall'esterno in una complicità molto subdola e con l'apporto delle armi più sofisticate.

Ho parlato con i molti bambini soldato di 12-13 anni, vestiti con ampie uniformi militari e che portano con fierezza sulle spalle delle armi più grandi e più pesanti di loro. Li ho sentiti raccontare le loro "prodigiose" gesta di guerra, di morte, di sangue. Mi sono sentito impotente e con tanta rabbia dentro.

In una lettera ricevuta da un prete: "Dacché sei partito nulla è cambiato. Ma la situazione della guerra rovina tutto e pesa enormemente sopra tutti noi. I danni provocati nella coscienza delle persone sono veramente incalcolabili. L'angoscia ci prende davanti alle aggressioni, alle sparizioni, ai massacri. Le "liberazioni" si succedono; ma sono liberazioni imposte da armi di ogni tipo. Quando finiremo di sacrificare il sangue innocente dei nostri fratelli?

Non sarà per domani. Sono certo però di quell'alba, che forse io non vedrò, ma che certamente arriverà e annuncerà la vita per tutti. I programmi delle nostre attività pastorali sono relativamente rispettati, ma facciamo tanta fatica a realizzarli. Siamo fortunati perché i nostri cristiani hanno finalmente capito che cosa vuol dire "essere uniti". La cosa più bella di cui stiamo facendo esperienza in questo momento di guerra è propria quella della "solidarietà" fraterna. Abbiamo ritrovato così qualche cosa che stavamo perdendo. E questo è per tutti noi un grande segno per poter sperare. Sarà Dio a dire l'ultima parola".

Il Congo continua il suo "duro" Venerdì Santo. Sulla via della croce abbiamo incontrato un "certo uomo di Cirene" e delle donne che piangono con la Veronica. Sono tutte quelle persone che hanno voluto assumere incondizionatamente la sofferenza di un popolo che non si stanca di gridare. Fino a quando, ancora, questo grido: "Marana-tha, vieni, Signore Gesù!".



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