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Le dita diafane mi stringono la mano con la lievità di farfalle. Gli occhi immensi, spalancati sull'infinito, vibrano di gioia nel contemplarmi. Le orecchie sono tese, ad accogliere le voci che giungono dalla strada vicina. Le parole giungono soffocate, articolate a stento: "Grazie che sei venuto. Ti ho atteso in questi giorni. Ora sono felice".

Maurizio sa che niente ormai può arrestare il disfacimento in cui il suo corpo sprofonda sempre più: il ventre gonfio, le gambe mostruosamente ingrossate, le braccia scheletriche, raccontano la storia di questi mesi interminabili, di una morte che impone sempre più la sua presenza inarrestabile.

Tutto è iniziato dieci mesi fa, quando sulla gamba destra apparvero degli strani rigonfiamenti, percorsi da dolori sempre pi lancinanti. Lo portammo all'ospedale di Muyinga, dove trascorse due mesi senza alcun miglioramento. E poi, il ritorno a casa: un viaggio di agonia, fino al lettuccio dove Maurizio trascorre ormai la sua vita, di naufrago rannicchiato su una tavola, mentre la sofferenza dilaga. Ogni tanto il sonno lo trasporta per qualche ora su una spiaggia serena, finchè la marea nerastra sopraggiunge e lo trascina nuovamente con sé.

Lo contemplo in silenzio, pervaso da una segreta vergogna: vergogna di sentirmi sano, robusto, riposato, e di non potere fare nulla per lui; vergogna di sentirmi accolto come un benefattore, io che posso soltanto chinarmi su di lui ed accarezzarlo e sussurrargli: "Maurizio, amico mio, eccoti disteso sulla croce del Signore, questo giaciglio dove da tanti giorni sei inchiodato. Ma la tua agonia è più lunga. Ed Egli lo sa, è qui con te, soffre insieme a te. E fra breve ti verrà a prendere".

Lo sguardo del paziente a questo punto si illumina: "Lo so, padre. E non temo di morire, questo no. Anzi è proprio quello che desidero".

Trascorrono lunghi istanti di silenzio. Ascolto il battito del suo polso stranamente ancora vivace, regolare. Dio mio, quanta sofferenza ancora prima di approdare alla fine?

Avverto un tocco leggero al mio fianco: la manina di Paolo, il più piccolo dei bambini, viene a ricordarmi il nostro impegno di sempre: ogni volta che esco di casa lo devo prendere in braccio e fargli guidare la macchina per qualche decina di metri. Ma Paolo sa che non deve avere fretta: prima bisogna che le chiacchiere degli adulti siano concluse. L'infermo mi ripete ancora la sua riconoscenza. Sa che quando se ne sarà andato la sua compagna, quella meravigliosa giovane donna che lo cura con affetto e lo assiste con un perenne sorriso, potrà mantenere i figli. Il pezzetto di terra appena acquistato le appartiene, e lei lo coltiverà con la stessa tenacia con cui ogni giorno si accanisce a mantenere pulito quel corpo in disfacimento e il lenzuolo che lo ricopre, così da evitare i cattivi odori. E fra qualche giorno arriveranno le tegole per ricoprire finalmente il tetto.

La visita si sta concludendo. Adesso Maurizio si fa forza per esprimere un desiderio che da tanti giorni nasconde dentro di sé: "Padre, vorrei un po' di latte e un po' di miele. Ne ho tanta voglia".

E' profonda l'emozione che mi scuote. Penso a Giovanni della Croce che, vicino alla morte, domandò gli si portassero alcuni dei dolci che nell'infanzia aveva gustato al mercato di Avila. Mi sembra di contemplare il Poverello d'Assisi che ringraziava frate Jacopo per il canestro di biscotti che ha appena ricevuto.

Dio mio, quanto poco basta a consolare i tuoi Poveri!

Abbraccio l'amico per l'ultima volta, prima di congedarmi, e gli sussurro all'orecchio: "Maurizio, ricordati di me quando arriverai nel Suo Regno!".

  • p. Piergiorgio Lanaro
    Ruzo, Burundi, settembre '99


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