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"Già ventimila i morti": Decine di religiosi massacrati

Tutti noi, durante questi mesi, abbiamo seguito con trepidazione ed angoscia le notizie che quotidianamente giungevano dalla lontanissima Timor Est, una piccola isola, la più a oriente dell'arcipelago indonesiano. Un conflitto non di religione, ma politico, alimentato da forti interessi economici. Il numero dei morti, dei dispersi, dei profughi è spaventoso. Nulla è più sicuro: le barbarie, i massacri, le fughe hanno sconvolto la geografia di un popolo che chiedeva solo di vivere nella libertà voluta e conquistata attraverso il referendum appoggiato dall'ONU.

Chi ha potuto fuggire ha cercato salvezza nelle foreste o in altre isole. Chi è stato deportato all'ovest, ha perso (oltre che casa, lavoro, scuola, legami familiari) il diritto di sentirsi parte di quell'unità che fa un popolo. Le notizie filtrano  secondo versioni contrastanti; quelle ufficiali non possono essere attendibili, proprio perché orchestrate per dare una parvenza di legalità ad un genocidio voluto; quelle che giungono dall'altro campo sono, purtroppo, le morti violente di chi resta per condividere fino in fondo la passione del popolo che ha scelto, per vocazione e per fede, come suo.

La Chiesa cattolica è ben piantata a Timor Est: l'85% della popolazione è cattolica; prima dei disordini erano attivi 44 sacerdoti diocesani, 88 religiosi, 350 religiose di varia nazionalità e 1780 catechisti. Sono stati loro il bersaglio ricercato delle uccisioni, perché sono loro i promotori dello sviluppo integrale di un popolo tenuto sottomesso per essere meglio  governato; sono loro che hanno coagulato attorno alle cappelle, alle scuole, ai centri educativi, ai dispensari, il senso di identità, il bisogno di libertà, la certezza di essere stati creati liberi e capaci di determinarsi, nell'unità di fede e di progresso.

Che ne è degli uomini e donne di Chiesa, dei catechisti, dei pastori? Disperse le guide, disperso il gregge. Ma le guide non sono fuggite: preti, suore e catechisti sono rimasti con la loro gente, rinchiusi con loro, in fuga con loro, impauriti, affamati, stanchi, con loro, condividendo in tutto la sorte di coloro che hanno ricevuto, per vocazione, come figli e figlie amati.

Chi è caduto sotto i colpi del machete o del fucile è il seme, timorese o straniero, che produrrà, presto, il nuovo volto Timor Est libero. E quanti, missionari e missionarie, timoresi solo di adozione, che pur potendo fuggire sono rimasti con il loro popolo di adozione, sono il richiamo più limpido e leggibile che l'odio non potrà mai vincere e solo l'amore reciproco libero, fino alla morte, è la vera vittoria, anche politica.



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