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La missione chiama: Nel mondo a piedi scalzi

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Pietro è qui - "Petros enì", è scritto nella cripta di San Pietro a Roma. Una concretezza scarna e stupenda. Qui ho sentito la comunione con il primo gruppo che ha camminato con Gesù. Non il tempio, pure stupendo, ma il legame con quella gente semplice e concreta, affascinata da Gesù e dal suo messaggio, mi ha scosso profondamente.

Nel silenzio, con gli occhi chiusi, unito a quella "povertà" dei dodici, ho sentito la gioia della presenza di Dio-fatto-uomo, di essere chiamato a entrare nel gruppo, a partecipare alla sua missione. Condizione indispensabile è la vera povertà. I discepoli, perché poveri, sono liberi da se stessi e dalle cose. Sono pronti per il progetto di Gesù. E la sua missione continua, anche attraverso di noi.

Meglio a piedi scalzi.

Mi è piaciuto quel gesto del papa durante il viaggio in Turchia quando si è incamminato, come tutti, con i soli calzini all’interno della moschea Blu. "Santità, non è necessario che entri scalzo", aveva detto l’imam un po’ imbarazzato. Poi, con il gran mufti di Istanbul, insieme hanno pregato in silenzio, rivolti alla Mecca. "Mi sono sentito accolto e compreso", ha detto poi il papa. "Mi sono rivolto all’unico Signore del cielo e della terra, Padre misericordioso dell’intera umanità. Possano tutti i credenti riconoscersi sue creature e dare testimonianza di vera fraternità".

Mi è sembrato un messaggio importante per la società del nostro tempo, percorsa da correnti migratorie.

Una situazione analoga, per certi aspetti, a quella vissuta da sant’Agostino d’Ippona che, di fronte al crollo dell’impero romano e di fronte alle migrazioni del nord e dell’est, ha saputo vedere nello sconvolgimento delle civiltà, non la fine del mondo, ma la nascita di un mondo nuovo.

Dio non è assente dalla storia. La fede ci orienta a scoprire la grazia del nostro tempo alla luce di Dio, Amore e Padre. In forza di tale Paternità, si avverte come sia vocazione di tutta l’umanità quella di formare una sola famiglia, unita nel vincolo della fraternità. Credere nell’amore di Dio che è Padre, significa riconoscerci figli - fratelli, e trattarci come tali. Ciò significa amarci davvero. Il beato Conforti lo ha creduto profondamente.

È quanto vivono i missionari nei vari paesi del mondo, con le opere aperte a tutti, l’impegno per la giustizia e la pace, ma soprattutto la conpisione dell’insicurezza e delle sofferenze legate a situazioni di guerra. È il dialogo della vita quotidiana. L’amore evangelico è verso tutti, spinge ad amare sempre, senza attendere di essere ricambiati. Questo atteggiamento porta a stabilire con tutti un vero e fraterno dialogo.

Sì, dialogo. È una strada della fraternità e della missione che siamo invitati a vivere, in qualunque angolo della terra ci troviamo. Penso alla gente che incontriamo sulle strade, nei mercati, agli studenti, ai vicini di casa, ai membri di famiglia. L’occasione del dialogo con quanti hanno smarrito la "cifra" del nome di Dio, ma non la sete di lui, è continua.

Ho celebrato la santa Messa nella casa di riposo vicina. Tra il personale, ho incontrato l’infermiera hindu e alcuni giovani musulmani. "Conoscere la religione dell’altro - scrive il teologo F. Whaling - implica entrare nella pelle dell’altro, vedere il mondo come lui lo vede, penetrare nel senso che ha per lui essere buddhista, musulmano, hindu…". Ci si mette così in condizione di imparare e si ha sempre da imparare realmente.

Se siamo animati da tale amore, allora l’altro può manifestarsi, perché trova in noi chi lo accoglie, chi lo ascolta. Nel dialogo ha così inizio quel rispettoso "annuncio" che permette di ascoltare Dio, prima di noi stessi e della nostra cultura, e di offrire ciò che abbiamo ricevuto in dono.

"La chiesa - diceva papa Ratzinger a Istanbul - non vuole imporre nulla a nessuno; chiede di poter vivere liberamente per rivelare Colui che essa non può nascondere, Cristo Gesù".



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