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Il nuovo museo: Non è un campionario di esotismo e folklore

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L'intuizione originaria

La sintetica ricostruzione delle vicende storiche del museo testimonia che esso, in questo anno che ne vede portata a compimento una radicale e ambiziosa ristrutturazione, esattamente in questi stessi giorni, compie 111 anni.

La data attesta anche che istituto e museo sono nati, praticamente, in contemporanea. Due frutti di un unico piano che Conforti, dentro di sé, percepiva come "un audace progetto".

La coincidenza ha di per sé qualcosa di inusuale ma non è affatto casuale. Da essa emerge, in effetti, una chiarezza di visione circa gli obiettivi, i programmi e le linee di sviluppo di entrambe le istituzioni.

La fondazione di un istituto esclusivamente missionario anzitutto. Come è ovvio, il suo unico e fondamentale compito doveva essere l'annuncio del vangelo (fede) in terre non cristiane.

In secondo luogo, la creazione di un museo evidenzia la volontà di aprirsi alla conoscenza delle culture dei popoli che verranno avvicinati (cultura). Ciò appare chiaro non solo dall'invito del Conforti ai suoi missionari di inviare "alla Casa Madre elementi culturali, d'etnologia e di arte", come scriveva nel primo regolamento (1898) ma, con pari o maggior forza, con la fondazione di un periodico ufficiale dell'istituto, che coniugava nel suo titolo "Fede e Civiltà" (1903) entrambe le facce - religiosa e culturale - del progetto confortiano.

La storia delle missioni testimonia che questa metodologia si fosse affacciata nella chiesa già ai tempi dei gesuiti e del p. Matteo Ricci (sec. XVI); risulta confortante che la lezione fosse stata imparata e fosse proposta ai saveriani fin dalla nascita dell'istituto!

In un'epoca già di per se stessa connotata da un forte eurocentrismo e, nel caso di missionari, influenzata anche dall'esperienza dell'incontro dell'Europa con il cristianesimo, sarebbe astorico pensare che il titolo del periodico potesse non riferirsi a una replica del modello religioso e culturale sviluppatosi in Europa. Ma è fuor di dubbio che i contenuti che il periodico veicolava facevano conoscere la Cina profonda e quotidiana, i suoi usi e costumi, la società, la sua filosofia e religiosità.

In una parola, svelava lo stupore, a volte decisamente rispettoso e simpatetico, altre volte assai critico, provocato dall'incontro dei missionari con quella civiltà, sconosciuta ai più, se non per certi suoi più superficiali contatti commerciali.

In questo modo, il proposito di istituire un museo, con l'esibizione degli oggetti e delle produzioni artistiche e artigianali provenienti dai vari Paesi, doveva costituire la prova concreta, non l'unica certo, ma forse la più significativa, dell'impegno dei saveriani nel campo della cultura.

Un santo patrono per i musei

Da ormai undici anni trascorro le giornate tra i reperti del Museo d'Arte Cinese ed Etnografico. Per questo, la proclamazione della santità di mons. Guido Conforti - avvenuta il 23 ottobre 2011 - ha assunto un significato particolare e interessato. San Guido Conforti è stato al tempo stesso fondatore dei missionari saveriani, e anche del Museo.

Scrive p. Toscano: "Mons. Conforti era geloso del suo museo, fino a rifiutarsi di prestare un vestito o un'arma cinese ai salesiani di S. Benedetto che glieli chiedevano per recite teatrali a favore delle missioni"... E ancora: "L'amore di mons. Conforti per i suoi pezzi fu grande. Si conservano ancora alcuni vasi accomodati da lui; non solo ne incollò i frammenti quando i vasi arrivavano rotti, ma arrivò a costruire i pezzi mancanti con cera e gesso mascherando poi l'accomodatura con colori e perfino riproducendo i disegni (ndr pratica del tutto scorretta e da non imitare)", (G. Toscano, 3.000 anni di storia cinese a Parma, 1962, pp. 18, 20). Nella prefazione al suo catalogo il medesimo p. Toscano annotava: "Quando mons. Conforti morì, il conte Boselli scrisse in un articolo della "Gazzetta di Parma", che egli sarebbe sopravvissuto solo come santo. Mi pare però che fondare in un istituto missionario un Museo Cinese, sia stata un'idea degna di un genio" (p. 7).

Così motivo l'emozione per questa proclamazione della sua santità: se a qualcuno venisse in mente che anche i musei potrebbero avere un santo patrono, la candidatura del Conforti sarebbe quanto mai idonea.

Nel dare inizio a questo assai ambizioso progetto di ristrutturazione, ci proponevamo di arrivare in tempo per l'evento della canonizzazione. Non è stato possibile. Il museo, comunque, rimane profondamente suo.

Un nobile museo missionario

L'occasione di un radicale intervento sulla struttura del museo offre l'opportunità di ripensarne significato e percorso storico.

Una significativa percentuale di musei, quanto alla costituzione del proprio patrimonio, beneficia di tre tipologie variamente presenti nelle sue raccolte:

  • deve qualcosa alle ruberie (o comunque le si voglia definire) attuate da eserciti, avventurieri o governi occupanti;
  • è frutto di mercanti o mecenati in grado di girare il mondo per raccogliere opere con cui abbellire dimore principesche, pinacoteche e quant'altro;
  • è nata da lasciti di mecenati o dalla passione di antropologi e missionari il cui intento per la raccoltapoteva essere culturale o semplicemente, diciamo così, folkloristico.

Nel caso del Conforti, il proposito di dar vita a un museo non aveva nulla a che fare con la voglia di mettere mani rapaci su oggetti d'arte. Neppure disponeva di patrimoni da investire in arte, di qualsivoglia provenienza. Aveva la passione, questa sì, ma attenzione, questa non era snobistica o fine a se stessa, né si alimentava della voglia di esibire alla curiosità dei visitatori oggetti variamente esotici.

Nel suo intento, gli oggetti raccolti dovevano raccontare l'emozionante epopea dei suoi missionari in terre lontane e sconosciute e il loro impegno e dovere di conoscere le culture e civiltà che avvicinavano.

Il suo contributo più grande per il successo dell'impresa è dovuto al fatto che ha saputo convincere tutti i suoi missionari del valore culturale della sua idea e coinvolgere pressoché tutti coloro che lavoravano in Cina. Le loro lettere ed articoli, nonché la quantità di materiale che riuscirono a raccogliere in tempi relativamente brevi, suscitano meraviglia ancor oggi. Hanno imparato benissimo la lezione e approfittato di ogni favorevole occasione per pensare al museo.

Ne fa esempio una delle tante lettere che giungevano dalla Cina e che lascia indovinare anche come si trattasse più di oggetti donati che di vere e proprie acquisizioni, per le quali i missionari non avevano grandi risorse economiche e quelle poche erano indirizzate precipuamente a opere caritative e sociali. "Essendo uso tra i Cinesi neo-convertiti, di dare un banchetto, invitare ospiti e fare un po' di festa nel giorno in cui si cacciano gli idoli (ndr coloro che si convertivano dovevano disfarsi delle effigi non cristiane, per sostituirle con immagini sacre cristiane)... in questo momento mi vengono portati gli idoli, alcuni in legno altri in terracotta...

Quando il R. P. prefetto (ndr Mons. Calza) spedirà costì gli oggetti antichi pel piccolo museo cinese dell'Istituto, manderò questi idoli....". La foto qui sotto, scattata da p. Guareschi nel 1906, illustra precisamente questa tipologia di acquisizione degli oggetti per il museo.

Quanto detto finora ci permette di arrivare a una prima, sicura, constatazione. Tanto per il Conforti come per i missionari, il museo rappresentava, per così dire, uno stimolo al dovere di accostarsi alle culture con cui venivano in contatto e un'opportunità per riversare in Italia un pari interesse per terre lontane e sconosciute. La cosa risulta evidente dai simultanei contenuti del periodico, "Fede e civiltà", che davano spessore culturale a tutta l'operazione museo. Il quale, per parte sua, finiva per essere una specie di terminale visuale di un flusso di conoscenze che arrivavano dall'Oriente.

Un museo, dunque, era in qualche modo luogo di scambio culturale, sia pure con una chiarezza meno consapevole di quella che noi possiamo avere oggi. Aggiungo, data la qualità del materiale raccolto, che siamo in presenza di un museo che sfida un vecchio pregiudizio duro a morire: un museo missionario deve essere per definizione un campionario di esotismo e folklore. No, questo è un museo in un'accezione nobile, cioè senza presupposti complessi di inferiorità che nascano dal suo essere missionario.

Un museo o due?

Con la morte del fondatore (1931) e il trasferimento di p. Bonardi, indiscusso e capace direttore per oltre 20 anni, ad altro incarico (1936), il museo passa in altre mani. E fa capolino un'idea che ne cambierà sensibilmente la percezione all'interno dell'istituto ed il suo modo di presentarsi all'esterno.

Padre L. Grazzi la esprime così: "Sorse la volontà di trasformare il Museo Etnologico Cinese in Museo d'Arte Cinese, per cui fu provveduta una nuova sistemazione di tutto il Museo" (cfr. Nota storica sulla fondazione e attuale consistenza del Museo Cinese di Parma, p. 6). Questo cambio di accento trovò la sua consacrazione e compiuta attuazione solo in anni successivi, sotto la direzione di p. Toscano il quale, nella prefazione al suo Catalogo "Museo d'Arte Cinese di Parma" scrive: "E, finalmente, l'occasione dell'ampliamento e della costruzione di una nuova ala dell'istituto nel 1957 fece decidere i superiori di riservare al museo un posto dignitoso e definitivo. Fu allora che mi si propose di fare il catalogo. La prima cosa che dovetti affrontare fu la divisione di tutto il materiale del museo in due settori distinti: gli oggetti con dignità d'arte, che furono riservati ad una grande camera e che diedero inizio al Museo d'Arte Cinese; e gli oggetti più propriamente etnologici che furono disposti intorno ad un grande salone" (p. 8).

Se pure la volontà di differenziare arte ed etnografia presenti in museo fosse idea debitrice delle teorie museologiche dell'epoca e se pure questa ebbe avvio già intorno agli anni '40, senza l'apporto decisivo di p. Toscano sarebbe stata velleitaria. Non esisteva prima di lui, né un inventario delle cose del museo e meno ancora un catalogo. Solamente la straordinaria opera di p. Toscano, le sue ricerche, le pazienti consultazioni di esperti italiani e stranieri che intraprese per datare i pezzi e individuare quelli di provato valore artistico poté, in realtà, dare credibile attuazione a quella operazione.

Sennonché, la cosa tradiva clamorosamente l'originario pensiero del fondatore. Che si trattasse di tradimento, è dubbio che ha attraversato la mente dello stesso p. Toscano. Scrive nel catalogo: "Le difficoltà incontrate furono moltissime; ne accenno ad una: il timore che ne risultasse alterata l'intenzione del fondatore mons. Conforti, che aveva dato vita più ad un museo etnografico che non ad uno specifico museo d'arte" (p. 8). Per di più, a partire dagli anni '60, nel museo era ripreso ed è sempre continuato con maggiore o minore fortuna e intelligenza fino ai nostri giorni, un afflusso di molto altro materiale. Proveniva da Asia, Africa e America Latina. Dai Paesi, cioè, dove i saveriani avevano esteso la loro opera dopo che si era completamente chiusa la Cina (1949).

Così, il nome che si è imposto con p. Toscano di "Museo d'Arte Cinese di Parma", con tutto l'altro materiale - cinese e non - relegato nel limbo del folklore esotico, se da una parte voleva affermare che il museo aveva una sua nobile dignità nel campo dell'arte cinese, dall'altra finiva per deprimere il valore di tutto quel materiale "non arte" che, come sappiamo, non è meno idoneo a esprimere e testimoniare la cultura e la civiltà dei popoli. Cosa del resto, ampiamente testimoniata dai tanti Musei Etnografici sorti un po' dovunque anche in Italia.

Nel 2001, si decise per un intervento sul nome, che divenne "Museo d'Arte Cinese ed Etnografico". La ovvia considerazione di non poter rinunciare a una giusta fama che negli anni il museo si era conquistata in Italia come museo di arte cinese rendeva problematico un abbandono di quel nome e, quindi, ci si limitò ad aggiungervi "Etnografico". L'aggiunta lascia intendere che il museo comprende qualcosa di più della sola arte cinese, quantunque l'operazione non appaia particolarmente brillante in termini semantici e, forse, quantomeno in Italia, ha ancora il sapore di alludere a una specie di figlio di un dio minore.

Due musei, dunque? Se ritorniamo alle sue radici direi di no. Certo, l'arte cinese era e rimane il suo fiore all'occhiello, ma questa è solo un pezzo della sua identità e della sua mission. Senza ombra di dubbio, quel che interessava al fondatore non era il "valore" dei pezzi, ma il loro essere "testimoni" di altre culture. Essi "meritavano" un museo perché dovevano rappresentare "quanto di più interessante possono offrire le diverse missioni in fatto di costume, di arte e di religione", per "favorire l'indispensabile cultura" del missionario in primis e, secondariamente, essere di "comune utilità" (art. 59 delle Costituzioni Saveriane).

Il museo, detto a posteriori, è nato "meticciato" e ha voluto essere ponte e luogo di incontro di culture, piuttosto che "vetrina nobile" per un verso, o contenitore di esotici "manufatti di artigianato" per altro verso. Non una identità, dunque, in altalena tra arte ed etnografia, ma una identità robusta, oggi più riconosciuta che in passato, basata non sul "valore artistico o venale" degli oggetti, ma sul loro essere "interessanti" e quanto mai rappresentativi del genio dei popoli.

Abbiamo tentato di esprimere questo concetto nell'elaborare il logo del museo. Esso miscela una specie di "emme" (Museo) chiaramente ispirata ad immagini che richiamano l'Oriente, nell'austera compostezza del bianco-blu delle grandi ceramiche cinesi, mentre la parola "Etnografico", nel cambio di colore, comunque cromaticamente contiguo al blu, vuole esprimere la colorita gaiezza delle culture del mondo.

Museo di un istituto missionario

Alla caratteristica appena discussa sopra, di essere un museo che ospita testimonianze di culture diverse e, fatalmente, un caleidoscopio di suggestioni multicolori, va aggiunto un altro importante tassello.

Il museo, seppure concepito per intuizione di un singolo, ha trovato un terreno di gestazione e poi di accompagnamento nella crescita, in un intero organismo, vale a dire l'istituto saveriano nel suo complesso.

Un istituto missionario, come si sa, nasce dal mandato di Cristo: "Andate in tutto il mondo... proclamate a tutti il mio Vangelo...". L'aspetto, a prima vista precipuamente religioso del mandato di Cristo, tuttavia si fonde e ramifica in un impegno umano e culturale con naturalezza e senza bisogno di forzature. Universalità e mondialità sono insite nel dna di un istituto missionario.

Conforti lo esprimeva con uno slogan assai semplice, seppur datato nella sua formulazione: "Fare del mondo una sola famiglia". Il mondo come orizzonte senza barriere e confini.

Da questo punto di vista, se il museo è, come ovvio, vetrina del genio dei popoli i cui oggetti appaiono in esposizione, è anche frutto del genio dei saveriani, che hanno creduto nel suo valore di promozione culturale. Un'utopia che l'istituto ha promosso anche con la fondazione, fin dal 1942, di un movimento di impegno nella scuola italiana che prese inizialmente il nome di CEM (Centro Educazione Missionaria), divenuto poi Centro Educazione alla Mondialità.

La storia dei saveriani e la storia del museo si intrecciano, direi quasi, si forniscono a vicenda, ragioni e appigli per coglierne tanto l'impegno precipuamente religioso evangelico del primo, come quello culturale che i manufatti così elegantemente mettono in luce nel secondo.



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