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Il cammino che porta alla Pasqua

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Siamo già a buon punto della quaresima: un cammino di quaranta giorni che ci porta alla Pasqua, festa della risurrezione di Gesù. In questo tempo, la Via Crucis scandisce la vita della nostra comunità, ogni venerdì sera.

C'è un legame stretto tra questa preghiera e la realtà della nostra comunità, in gran parte formata da confratelli anziani e malati. L'esperienza dell'indebolimento delle nostre forze e la sofferenza della malattia ci rimandano continuamente alla passione di Gesù e al dolore dell'umanità crocifissa oggi a causa dell'ingiustizia e della miseria, della violenza e della guerra.

Facciamo due passi...

Sofferenza e dolore sono due momenti importanti della nostra vita, perché ci stimolano ad andare oltre, a uscire da noi stessi per cercare uno sguardo, un sorriso, una parola di conforto da chi ci sta vicino. Dopo questo primo passo, ci accorgiamo che ci sono altre persone che soffrono. Allora facciamo un secondo passo: quello di soffrire insieme.

Nasce così un atteggiamento di solidarietà che ci permette di portare insieme il peso della sofferenza e di aprirci alla speranza di un futuro migliore. La risurrezione di Gesù è il segno più evidente che la sofferenza non ha l'ultima parola. Questa spetta invece all'Amore, che tutto trasforma.

Come comunità missionaria, viviamo il periodo della quaresima nell'attenzione a quanto sta succedendo nel mondo, soprattutto nelle nostre missioni. Camminare verso la Pasqua, per noi missionari, vuol dire accompagnare l'umanità nella sua attesa della pace. Siamo certi che il Dio della pace è con noi.

L'esempio del Congo

In Congo, dove sono presenti una quarantina di nostri confratelli, la popolazione del Kivu è ancora una volta vittima di una ribellione: quella del gruppo armato denominato "Movimento del 23 Marzo" (M23). Circa trecentomila persone hanno dovuto abbandonare le loro case, i loro villaggi e i loro campi per sfuggire alla violenza degli scontri tra questa nuova ribellione e l'esercito nazionale.

Mburano, 55 anni, coltivatore di ortaggi, racconta: "Vivo nell'accampamento di Kanyarucinya con mia moglie e i miei sette figli. Uno di loro, l'ho adottato quando l'M23 è arrivato nel mio villaggio. Era solo e, in questi casi, tutti i bambini sono nostri figli". Mburano vive sotto una delle 11.100 tende montate su pali di legno. Sono progettate per cinque persone, ma le famiglie sono spesso più numerose.

Nella stagione delle piogge torrenziali, i teloni forniti dal commissariato per i rifugiati (UNHCR) spesso non reggono: "Quando si va a dormire, è come se si andasse a fare la doccia", dice Mungu, 25 anni, mentre imita l'acqua della pioggia che cade dal telone di plastica sulle orecchie.

Anuarite, giovane madre di tre figli, aggiunge: "Il PAM, (Programma alimentare mondiale) distribuisce un po' di cibo (manioca, fagioli, olio, sale...), ma spesso non abbiamo la legna per cucinare. E il cibo deve durare un mese, ma quello che ci è dato è insufficiente".

Eppure, tutti cercano di sopravvivere. Mburano rimane fiducioso: "Se ci sarà pace, tornerò a casa mia, anche se dovrò iniziare da capo, perché la casa e i campi sono distrutti". Il 9 dicembre scorso, il governo congolese ha iniziato un confronto con l'M23, per cercare di mettere fine al conflitto. Ma finora non si è arrivati a nulla di concreto.



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