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Il bello delle stelle africane

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Quando il pallone entra in rete 

Padre Lino Maggioni, all’età di 70 anni è tornato nella missione del Burundi. Ha avuto un bel coraggio. Ma il missionario è fatto così. Difficile cambiarlo!

Mi sento come quel pesce rosso che una mano amica ha rimesso nel vaso dell’acqua. Sento che persone, ritmi, ambiente circostante mi si confanno meglio di quelli dell’Italia del nord. Sarà una resa, demenza senile? Non lo so. Sento solo che lo sforzo richiesto è più consono alla mia cilindrata. E i bisogni li vede anche un cecuziente.

Questo primo articolo è sulle attività del centro giovani di Kamenge, dove vivo e mi abituo alla missione.

In fuga dalla realtà

“Dopo le guerre etniche, ora corriamo il pericolo di combattere guerre di religione”. Lo diceva un giorno un vescovo di quelli che vedono lontano. Di fatto, i dati statistici del 2002 relativi alla capitale del Burundi segnalano il cambiamento di tendenza. La popolazione che, prima delle guerre etniche degli anni novanta, sembrava decisamente orientata verso il cristianesimo, ora si presenta come un caleidoscopio di religioni e sette.

Nei quartieri nord della capitale, che assomigliano tanto a delle bidonville, sono state recensite 110 sette religiose, dai nomi più provvisori. Sorgono in tutti gli angoli. Basta una capanna un po’ più ampia. Dentro, tutti cantano come delle ninne nanne, quasi varcassero la soglia dell’arcano che è oltre le tante speranze deluse.

Aumentano i musulmani

Sollecitati da p. Claudio Marano, i giovani del centro di Kamenge si sono chiesti che cosa fare per attraversare i fossati religiosi che dividono anche i giovani. Qualcuno di loro aveva dato un suggerimento: “Perché non lanciamo un concorso di corali musicali? Così teniamo viva la speranza che domani sarà meglio di oggi”. L’iniziativa ha avuto successo. Ogni anno, a maggio, si ripete.

Purtroppo i musulmani rimangono tagliati fuori, perché loro non usano cantare nelle loro assemblee. Dopo le guerre del ‘93 e del ‘96, il numero dei musulmani si è ingigantito. Rappresenta ormai il 20 per cento della popolazione. La loro espansione è sostenuta dagli arabi del petrolio.

Ai quattro angoli della città, gli amplificatori dei minareti ritmano la vita con la preghiera ad Allah. Si ha l’impressione che in questa città tutti quanti siano in fuga verso un misticismo rarefatto.

Il calcio che funziona

Padre Claudio e i suoi giovani si sono detti: “I musulmani giocano comunque a calcio. Perché allora non organizziamo il campionato di calcio dei quartieri nord della capitale? Il calcio può ricordarci che Dio è il Creatore di tutti: dei cristiani e dei musulmani. 

Dio ha creato il mondo che noi uomini stiamo distruggendo. Il campionato di calcio è un banco di prova per recuperare qualcosa di quella pace che la guerra ha portato via dalle nostre colline”.

Anche i musulmani hanno detto subito di sì. Quindici squadre di parrocchie cattoliche, chiese protestanti, moschee musulmane sono scese in campo.

I beduini guardano le stelle

A metà torneo, la sorpresa. Tutti hanno accettato l’invito di p. Claudio ad incontrarsi. Quell’incontro è diventato la prova del nove della pace. Tutti hanno ringraziato tutti di essersi scoperti fratelli, anche se di religione diversa. “Giocare insieme, fa bene a tutti”.

Tra gli imam in camice bianco, quello che sembrava attirare il rispetto degli altri capi di moschea, ha messo la ciliegina sulla torta della fraternità: “Questo torneo richiama la saggezza di un proverbio arabo: i beduini del deserto guardano il cielo stellato e vedono che la differenza è bella. Nelle notti senza stelle, tutto è uguale e si addormentano tristi”.

Gesti di umile gente

Due laici missionari, una giovane di Trento e un giovane di Piacenza, spettatori delle partite, hanno commentato: “Per noi che sappiamo come vanno le storie di calcio in Italia, questo torneo è un bell’esempio di correttezza”. A volte la missione del vangelo si nutre anche di gesti umili di gente umile.



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