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Gli inizi: ''Ma cosa andate a fare?''

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Alessandro - Una delle domande più ricorrenti che la gente ci faceva prima che partissimo per venire in Brasile era: "Ma cosa andate a fare là?". Da un certo punto di vista, è una domanda legittima e comprensibile. Il "fare" infatti è ciò che spesso interessa di più le persone, ciò che ci appaga; a volte sembra persino essere ciò che dà senso a quello che siamo.

Peraltro, credo che questa sia una costante che superi ogni latitudine. Non a caso, anche arrivati in Brasile, questa è la domanda che, in modo un po' meno diretto, la gente ci rivolge specialmente quando sa che siamo italiani, che viviamo insieme ai missionari, che siamo sposati e abbiamo due figli eccetera... Insomma, anche per i brasiliani questa è una novità! Credo che questo essere una famiglia "normale" in missione abbia rappresentato già un primo motivo di curiosità e indirettamente di annuncio evangelico.

Qui l'idea del missionario è infatti associata esclusivamente all'immagine del "padre", del religioso e sacerdote, e non certo a quella della "famiglia". Già le prime volte, quando ci presentavamo come famiglia e come laici missionari, la gente rimaneva un po' sorpresa e assieme alle classiche domande per conoscere cosa facevamo in Italia e per quale motivo avevamo deciso di venire in Brasile, un'ulteriore curiosità, non sempre espressa direttamente ma che spesso intuivamo nei loro sguardi, era: "Ma qui cosa fate?".

Una convinzione chiara e profonda

Alessandra - Non è stato facile spiegare, specialmente i primi tempi; e non mi riferisco alla semplice difficoltà della lingua... La difficoltà più grande infatti era (e a volte è tutt'ora) spiegare alla gente (sia in Italia sia in Brasile), che il senso della nostra partenza e della nostra presenza qui non è tanto, solo o prima di tutto, nel fare, ma nel voler "essere".

Per noi questa è stata una convinzione che abbiamo sempre avuto chiara, ancor prima di partire. Probabilmente, i mesi che hanno preceduto la nostra partenza e durante i quali abbiamo vissuto il nostro personale cammino di discernimento, ci hanno aiutato a purificare la nostra idea di missione e ci hanno rinforzato in questa convinzione. La missione non è un luogo dove andare a "fare", ma un luogo dove andare per "essere". O meglio ancora: ciò che muove chi desidera vivere la missione non è la voglia appagante di voler fare delle cose, ma il desiderio di vivere una presenza nella fede, perché si sente chiamato e inviato.

Spesso questi discorsi sembrano astratti e incomprensibili. Ma una cosa molto bella, che in realtà abbiamo scoperto e riscoperto proprio in questo tempo di missione, è il vedere come proprio questi discorsi e queste prospettive accomunano tutti coloro che vivono un'esperienza vera di missione: al di là del tempo e della durata della missione, dei luoghi e delle situazioni della vocazione.

Prima di tutto, conoscere e incontrare

Alessandro - Ovviamente questo non significa che in missione non ci siano cose da fare. Tutt'altro! Non a caso le nostre giornate in Brasile sono molto intense e lo sono state da subito, anche se con connotazioni diverse, soprattutto rispetto ai primi mesi.

Il primo periodo infatti è stato soprattutto un tempo per vedere l'ambiente, studiare la lingua, conoscere le persone, inserirsi gradualmente dentro la nuova realtà, a volte difficile da capire e di fronte alla quale il rischio più grande e insidioso è quello di voler giudicare.

Abbiamo incontrato e conosciuto varie realtà: gruppi parrocchiali, animatori pastorali, persone e gruppi che vengono periodicamente in casa per celebrare o partecipare a incontri, giovani e famiglie, gente di passaggi e persone che vivono nel nostro quartiere, bambini con famiglie in difficoltà, contadini del movimento "sem terra", una comunità di indio...

E abbiamo fatto alcune scelte operative: impegnarci con la comunità indio kaingang di Boavista e con i bambini di periferia a Cantagalo, non lontano da Laranjeiras, dove viviamo con i saveriani p. Mario Tognali, p. Gabriele Guarnieri e p. Diego Pelizzari.



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