“È il sangue dei miei fratelli”
“Sono rimasto impressionato - ha detto Robert Garreton, inviato speciale dell'ONU per i diritti umani in Congo - dal modo in cui, in questi ultimi anni, la società civile congolese, malgrado il ristretto spazio di libertà a sua disposizione, ha potuto organizzarsi e riuscire a far sentire la sua voce, sul piano nazionale, regionale e internazionale… Credo nell'avvenire del Congo. Ma questo avvenire non sarà fatto che dagli stessi congolesi” (intervista a “Karibu”, gennaio '02).
Lo abbiamo toccato con mano durante la missione di pace a Butembo nel 2001, incontrando la gente del Kivu e nel simposio per la pace . Abbiamo sentito il dramma che la popolazione stava vivendo, ma soprattutto la voglia di pace, le proposte concrete per un cammino di riconciliazione nella verità e nel perdono.
“Dobbiamo parlare, perché il popolo soffre. Dobbiamo parlare con i capi di Stato, ai responsabili. Dobbiamo rivolgere all'Africa un messaggio di riconciliazione e di pace”: così il vescovo di Butembo mons. Sikuli aveva aperto l'assemblea del simposio . Era il testamento spirituale di mons. Kataliko.
“Basta! Non sparate più! Ho amici laggiù. Ho fratelli laggiù! Tutti sono miei fratelli! Anche coloro che noi chiamiamo aggressori sono miei veri fratelli! Ogni goccia del loro sangue versato provoca in me dolore profondo. Basta! Basta!”.
Ecco il grido dell'abbé Richard Kitengie, di Kabinda. È anche il nostro grido.