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Conversando con P. Ilario Trapletti, da Tavernola

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Sei in Amazzonia da tanti anni: se volessi fare un confronto con l'Italia, quali differenze coglieresti nella Chiesa, nella famiglia, nella scuola e nel lavoro?

Sono partito per l'Amazzonia nel 1975, ritornando in Italia ogni cinque anni per un periodo di riposo di qualche mese. Al ritorno, sempre spalancavo gli occhi sopra la realtà italiana che vedevo, di volta in volta, completamente diversa. Tutto mi pare meraviglioso, pulito, ordinato: un mondo ricco e indaffarato. Poi scopro altri aspetti: arrivo nei giorni del G8 e vedo cose incredibili che mi parevano relegate nella preistoria. Sì, gli italiani sono ricchi, ma insoddisfatti, agitati.

È quasi ridicolo fare il paragone con le mie Comunità dell'Amazzonia, povere, abbandonate, ma così serene, tranquille da fare invidia a noi di qui. Certo manca un po' tutto dal cibo alla scuola. Si vive quasi unicamente di quello che la natura offre, in primo piano la mandioca. La famiglia viaggia su altri parametri: non c'è stabilità familiare e con facilità gli uomini abbandonano la famiglia per farsene un'altra. Forse anche per questo abbondano i "meninos de rua", ossia i bambini abbandonati a se stessi, questo accade nelle "favelas" delle grandi città.

La diocesi dove lavori ha una lunga storia o è recente?

La diocesi di Abaetetuba sul Tocantis, dove lavoro io, è più estesa della Lombardia, divisa in 11 grandi parrocchie per attendere alle quali siamo in 13 padri Saveriani e 5 sacerdoti diocesani. Ci sono parrocchie che richiedono mesi di barca per poter visitare le Comunità lungo i fiumiciattoli immersi nella foresta come lunghe gallerie. E una storia che conta solo 35 anni, cioè da quando siamo arrivati noi Saveriani. Prima erano abbandonati a se stessi: oggi le visito almeno 3 volte all'anno.

Quali sono i punti più importanti della pastorale diocesana?

La nostra forza sono le Comunità Ecclesiali di Base, che sono il tessuto vivo della Chiesa locale. Gli animatori di Comunità portano avanti tutto il lavoro pastorale da soli, senza nessun interesse economico; e sono poveri come tutti gli altri. Che bello vedere quando vengono alla missione centrale a prendere l'Eucarestia e se la portano nelle

Comunità, entro le loro secolas e la distribuiscono alla domenica durante le liturgie che durano parecchie ore! Forse qui si pensa che ci sia poco rispetto per il Signore, ma a noi pare invece che ci sia tanta sincerità di fede. D'altra parte, i primi cristiani non portavano forse a casa l'Eucarestia? La pastorale diocesana è scandita di 4 in 4 anni dalla Assemblèia do Povo di Deus: un centinaio di rappresentanti di tutte le Comunità si incontrano per giorni e giorni e definiscono le linee prioritarie della pastorale.

E nessuno manovra lo Spirito che agisce in loro: né i padri, né il vescovo che, anzi, si pongono in ascolto e tirano le fila per le conclusioni. È dunque una Chiesa più incarnata e più vicina alle istanze del popolo. Qualcuno dirà: è troppo terra terra. Può darsi, ma è la realtà triste del popolo che ti interpella e ti fa prendere quelle direttive concrete.

Come si svolge la tua attività missionaria nelle Comunità a te affidate?

L'esperienza più bella è quella di condividere la loro povertà e semplicità, sentirsi liberi dal possedere tante cose, poter perdere il tuo tempo con loro, magari avere la sensazione di fare dei buchi nell'acqua, di essere dei servi inutili, ma sentire che loro camminano, c:i;escono. Nei miei giri nelle Comunità della foresta, non avevo l'orologio come guida e neanche il taccuino degli impegni: sei lì con loro, con quei bambini denutriti e con il pancino gonfio di vermi, e giochi in quell'erba piena di mocoins che ti beccano e ti penetrano nella pelle tanto che dovrai grattarti poi per giorni e giorni.

Hai qualche progetto particolare che vorresti far conoscere anche ai nostri lettori?

Non ho progetti speciali: tornerò in quella terra e continuerò a portare la mia bisaccia sulle spalle con l'amaca per dormire e le quattro cose necessarie per la Messa, e aspettando qualcun altro.



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