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Congo RD: Mettiamoci un po' in disparte

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Per una chiesa più responsabile

Nella repubblica democratica del Congo i saveriani sono una cinquantina. Lavorano in 4 diocesi della zona orientale, verso il confine con Rwanda e Burundi: Goma, Bukavu, Uvira e Kasongo. Nella capitale Kinshasa i saveriani hanno la comunità del noviziato e una missione in periferia.

Ho fatto l'intervista a padre Simone Vavassori lo scorso agosto, mentre salivamo per lo stradone, in pellegrinaggio al Sacro Monte di Varese.

Era in ottima forma di salute e di spirito. Nessuno avrebbe pensato che qualche mese dopo, il 10 febbraio sarebbe stato trovato inconscio, curvo sul tavolo, colpito da ictus. Il disegno della vita è noto solo a Dio. Tutti l'abbiamo compianto e apprezzato come "la persona giusta al momento giusto". Grazie a Dio quel "momento" è durato quasi vent'anni.


Com’è la situazione adesso e come viene condizionata la missione?

Abbiamo saputo che a Kinshasa sono stati fatti dei passi positivi. Però non sappiamo quanto questi possano incidere sulle situazioni locali. Dalle nostre parti ci sono molti gruppi di banditi o ribelli, i cosiddetti May May. Prima rubavano di nascosto, adesso si sentono autorizzati a farlo perché sono militari armati. A chi fa parte di questi gruppi bisognerà garantire la sopravvivenza. È chiaro che in questa situazione la nostra attività è molto difficile. Finché non c’è una certa tranquillità è difficile svolgere dei programmi pastorali. Per un missionario spostarsi da un luogo all’altro è problematico; e lo è anche stare con la gente, che a volte c’è e a volte non c’è. Spesso le persone sono costrette a fuggire nella foresta.

In questa situazione di incertezza e di mobilità della gente cosa fanno i saveriani? Come impostate la missione?

Noi cerchiamo di essere presenti il più possibile. La nostra presenza per la gente è una garanzia, alimenta la speranza che in futuro le cose possano sistemarsi. Per il resto, lavoriamo molto nel sociale. Cerchiamo di portare il nostro contributo negli ambiti in cui possiamo farlo, soprattutto l'assistenza ai malati attraverso i dispensari, l'aiuto alle famiglie negli accampamenti degli sfollati, l'assistenza agli orfani e alle vedove, l'insegnamento nelle scuole e altre attività. Cerchiamo di sfruttare tutti i mezzi per mantenere viva la speranza nella popolazione.

Le scuole funzionano? Le medicine si trovano?

Curiamo molto le scuole, anche se la frequenza degli alunni è piuttosto instabile a causa della situazione così insicura; spesso gli insegnanti non sono pagati e molti genitori non hanno i soldi per far studiare i figli. Per le medicine, qualcosa si trova. Però avvengono molti saccheggi, specialmente nei luoghi in cui ci sono istituzioni che funzionano, siano esse scuole, missioni o ospedali. Quindi bisogna continuamente ricostruire, rinnovare, impegnarsi per garantire continuità a ciò che si cerca di fare.

C’è il rischio che i missionari rimangano coinvolti?

No, non credo che ci sia questo rischio. Al limite, qualche balordo potrebbe volersi vendicare di qualche torto subìto, vero o presunto. Certo, ci vorrebbe più trasparenza e maggiore volontà da parte di tutti per ricomporre la nazione e restituire alla gente una vita normale.

Cosa comporta “rinnovare la missione” in Congo?

Bisognerebbe innanzitutto aiutare la gente ad acquistare una nuova mentalità, un nuovo modo di vivere insieme, perché questi gravi conflitti con rivalità etniche e con manipolazioni dall'esterno per interessi economici difficili da identificare, si ripercuotono sulla vita personale e comunitaria.
Bisognerebbe aiutare a rinnovare la speranza cristiana, il perdono, la capacità di vivere insieme. Credo sia fondamentale alimentare nelle persone il senso di responsabilità. Ognuno deve prendere coscienza di avere un proprio ruolo da svolgere, di dover fare la propria parte, anche nel processo di ricostruzione della nazione. È facile rendersi conto che una situazione così drammatica condiziona anche tutta la missione.

Cosa c’è da rinnovare nella vita dei saveriani?

In questi giorni si parla molto di conversione. Per noi conversione significa avere la capacità di entrare più in contatto con la gente in mezzo alla quale operiamo, con lo stesso suo stile di vita. Questo implica dare più fiducia a chi ci sta di fronte, accettando anche che commetta qualche errore. Vedere, insomma, il nostro interlocutore da un punto di vista diverso da quello colonialista. Sentirci non superiori, ma fratelli.

Questo non vuol dire che noi missionari non abbiamo niente da dare; ma significa darlo in modo diverso, magari accettando di metterci un po’ in disparte pur di fare in modo che le persone diventino più responsabili. Ormai ci stiamo rendendo sempre più conto di questa necessità, anche nei rapporti con la chiesa locale. Non è continuando a fare tutto noi che risolviamo i problemi della popolazione, ma aiutandola a sviluppare le proprie capacità e potenzialità.



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