Coltivare l’umanità nella tragedia
Davanti al senso di “impotenza e di inadeguatezza”, sottolineato da papa Francesco nell’incapacità di porre un termine alla guerra in corso, abbiamo bisogno di sentirci dire: “Non temere”. Quel non temere che ci viene da Dio, che ci aiuta a mantenere ferma la speranza anche nelle situazioni più difficili, dove il male, la violenza e la distruzione sembrano travolgerci con il loro carico di desolazione.
Lo stesso panorama delle istituzioni internazionali è sconfortante con la costatazione rilevata da Papa Francesco per cui si assiste “all’impotenza delle Organizzazioni delle Nazioni Unite”. La logica ormai dominante sembra essere quella “delle strategie degli Stati più potenti per affermare i propri interessi estendendo l’area di influenza economica ideologica e militare”.
Papa Francesco aveva già sottolineato questi aspetti nell’enciclica Fratelli tutti, dove segnalava un “ritorno all’indietro” della storia, fatto da conflitti anacronistici, nazionalismi chiusi, esasperati, risentiti e aggressivi, alimentati ideologicamente da una presunta difesa degli interessi nazionali (cfr. FT 11). Quando questo ritorno indietro della storia sfocia nella guerra si constata il “fallimento della politica e dell’umanità”, come se si fosse lasciato campo libero alle forze del male (cfr. FT 261).
Ecco allora l’importanza di restare umani, di resistere alle reazioni violente ed investire le energie migliori in gesti di fraternità, iniziative di solidarietà e attenzioni di accoglienza. “Prendiamo contatto con le ferite - ci dice il Papa - tocchiamo la carne di chi subisce i danni, rivolgiamo lo sguardo a tanti civili massacrati, domandiamo alle vittime, prestiamo attenzione ai profughi” (FT 261). È il cammino che siamo invitati a percorrere come cristiani in questo frangente così delicato della storia, per vivere coscienti di ciò che succede, per non lasciarci abbattere dallo scoraggiamento, evitando l’indifferenza di ciò che accade, nell’illusione di vivere in un’isola felice solo perché non siamo sotto il fuoco delle bombe.
Visto come stanno andando le cose e ascoltando le analisi di istanze ben più informate, questa guerra non finirà presto. Se anche poi finisse bisogna pensare alla ricostruzione di ciò che le immagini ci hanno mostrato. Non sarà dunque un’accoglienza di breve durata. Condividere situazioni simili comporta un’implicazione tale da rinunciare alla propria pace personale per lasciarsi investire dalla sofferenza altrui. È solo in questa prospettiva che potremo coltivare l’umanità nella tragedia, rinnovare la solidarietà di fronte all’individualismo, far emergere dall’egoismo lo sguardo verso chi soffre.
Agire in questo modo vuol dire anche “uscire dallo schema della guerra”, rinunciare “allo spirito di Caino” e abbracciare una prospettiva di pace. La conversione richiesta in questo periodo è sicuramente più esigente perché domanda una mobilizzazione di energie affettive ed effettive, non solo momentanee, ma da mettere su un orizzonte a medio e lungo termine, con una durata di cui non conosciamo il termine. Potrebbe essere una conversione “pasquale”, che lascia parlare lo Spirito del Risorto al nostro desiderio di bene.
Saremo in grado come cristiani di sostenere una prova simile? Se i calcoli e le previsioni possono spaventare, l’abbandono alla Provvidenza divina ci può dare quella serenità che permette al suo amore di generare nuovi orizzonti, impensabili per l’umana ragione, e magari offrire soluzioni possibili solo a chi si lascia ispirare fino in fondo dallo Spirito del Creatore.