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Chiamati alla missione: Solitudine della missione

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Non riflettiamo abbastanza sui lunghi anni di Gesù a Nazaret.

Il Figlio di Dio viene sulla terra a salvare il mondo, e che fa? Se ne sta chiuso in un piccolo villaggio alla periferia dell’impero per i nove decimi della sua vita. È normale che faccia il bambino normale di una famiglia normalmente povera? E che impari il mestiere di Giuseppe? E che poi lui, il salvatore dell’universo, continui a mandare avanti una bottega di carpentiere?

Forse è normale. Ma vedo in questa normalità la solitudine di un mistero che lentamente si fa luce e lo colma di attesa: “Il Padre è in me e io sono nel Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola”. Deve imparare, in quella quotidianità così lenta, cos’è l’uomo in Dio e cos’è Dio nell’uomo.
Lo vedo sempre più assorto. Con chi parlarne, se non con il Padre che a lui si rivela? Forse, qualche rapido cenno con Maria, la Madre. Ma anche lei, pensosa, “medita nel suo cuore” quell’immensa normalità che le si svolge accanto.

Poi la vita apostolica: meno di tre anni, su e giù per i villaggi della Galilea, a Gerusalemme, nelle città o nei deserti della Giudea, della Samaria, della Decapoli... Una vita movimentata, tra folle osannanti per i miracoli e che pretendono altre meraviglie. Vogliono farlo re. Ma egli si ritira in preghiera, lontano da tutti. Si ritaglia notti di preghiera o, almeno, le prime e ultime ore della notte. Nostalgia di Nazaret! E ancora quell’immergersi nel mistero del suo essere - così piccolo e così solo - Uno con il Padre nello Spirito.

Squarcia quella solitudine per un attimo, sul Tabor, condividendola con Pietro, Giacomo e Giovanni; ma per annunciarla e affrontarla, più aspra ed estrema, nel Getsemani: “Allontanatosi da loro - ancora Pietro, Giacomo e Giovanni - quasi un tiro di sasso, si inginocchiò e pregò…”.

Si manifesta, subito dopo, tutta l’incomprensione in cui Gesù è rimasto anche in quegli ultimi 30 mesi della sua esistenza terrena: “Tutti, allora, abbandonandolo, fuggirono”. Sa che il Padre rimane con lui: ha fiducia, si abbandona nelle sue mani. Eppure grida: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Anche Dio talvolta si nasconde, fino a sembrare che il peccato prenda il sopravvento e la creatura resti senza fondamento. Anche al Figlio di Dio può capitare questo, perché s'è fatto peccato e maledizione per portare tutti e tutto alla Pace.

La resurrezione, perciò, significa anche un riprendere i rapporti, magari a fatica come sulla strada di Emmaus o come Tommaso che stenta a credere.

La solitudine della missione. La chiamata alla missione è una chiamata alla solitudine. Per creare comunione. Chiamare è, biblicamente, un “separare” per unire. Noè costruisce l’arca da solo. Abramo è solo quando lascia la sua terra o va a sacrificare il figlio che più ama. Mosè fugge solo nel deserto e resta solo sul monte…

A ben pensarci, è per sfuggire alla solitudine del chiamato e per conservare comunque una compagnia che Adamo mangia il frutto proibito. Eva ne ha già mangiato; se egli rifiutasse, l’uno e l’altra avrebbero due destini diversi.

Accettare la solitudine della chiamata è una condizione per la missione. Una solitudine colma di Dio e che rimane in ogni stato di vita. Certo è più innaturale per chi si consacra nel celibato. Ma anche per gli sposati c’è una “vedovanza del cuore”, che prepara quella della carne, perché il Dio che li unisce riserva per sé la “grande sala” nel più intimo del loro essere.

Solo quando Dio sarà tutto in tutti, tutti saranno uno in Lui. Chiamati alla missione per la comunione, sappiamo che questa sarà piena solo quando verrà la Fine come eterno Principio.



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