Chiamati alla missione: Per sei miliardi d’invitati
I simboli sono una cosa stupenda. Fanno sì che il mondo diventi “parola”, che tutto ciò che è attorno ci parli. Ma a volte non bastano. Che ne direste se, quando andiamo a tavola, trovassimo solo un simbolo del mangiare e del bere? Magari un quadratino di pane sulla tovaglia e quattro gocce d’acqua in un bicchiere?
Quando portano all’altare l’ostia bianca (che è pane, anche se non pare) o le piccole ampolle dell’acqua e del vino, mi chiedo se è solo questo che diventerà corpo e sangue del Signore. E quando metto nel cestino l’euro o i 50 centesimi che ho portato con me da casa, mi chiedo ancora se è solo questo che diventerà la carità di Dio per il mondo.
Non si può certo tornare ai tempi in cui c’era chi portava all’assemblea mezzo sacco di grano o una gallina (già spennata), dieci uova o una focaccia, una falce o un bel cesto impagliato, un fiasco di vino o un pesce fresco… Era ciò che avanzava dalla vita grama di ogni giorno o il lavoro “straordinario” fatto per gli altri.
“Ciò che è di più - più del vostro quotidiano bisogno - datelo ai poveri”.
Il prete raccoglieva tutto e formava accanto all’altare una piccola dispensa da cui attingere per le necessità più urgenti. Poi si lavava le mani (se le era sporcate davvero!) e prendeva la focaccia da consacrare e un po’ di vino dal fiasco, pure da consacrare. Una piccola parte di quello che era stato offerto per i poveri diventava corpo e sangue del Signore. Ma anche ciò che sarebbe stato diviso fra i poveri diveniva in qualche modo Lui in loro.
I poveri di oggi hanno bisogno della casa o del permesso di soggiorno, di un lavoro o di cure mediche e di tanta compagnia… Nulla che io possa portare con me in chiesa. Nulla che possa versare nel cestino della raccolta. Nulla che possa essere consacrato. Pure l’offertorio deve avere la sua sostanza, oltre il simbolismo che lo pervade. Diventerà corpo e sangue del Signore ciò che è stato dato da noi per i poveri; ciò che è stato fatto da noi per essi e con essi. I figli di Dio, obbedendo alla sua parola, imbandiscono una mensa per l’umanità e solo questa mensa diventerà altare del sacrificio, comunione con l’Agnello.
L’offertorio si fa denso e impegnativo: preparare una mensa con i beni che sembrano nostri, ma che Dio ci dà per tutti: i soldi e la casa, la possibilità di lavorare e quella di amare… Sull’altare arriva solo ciò che abbiamo condiviso. Certo, anzitutto con la famiglia e le persone più care; poi, però, anche con la comunità, con i poveri che incontriamo sulla nostra strada e, senza considerarli remoti al nostro affetto, con i lontani: con i quattro quinti dell’umanità che guardano, invidiandoli, i nostri privilegi.
Ecco la vera offerta. Il lavoro che “presentiamo a Te” sotto l’immagine dell’ostia non è quindi l’affannarsi teso al profitto e al consumo, che dissipa le risorse della terra, che logora le nostre relazioni umane e il futuro dei nostri figli. È, invece, la nostra fatica quotidiana e pesante, ma mai alienante, perché illuminata da un amore che abbraccia insieme il Padre del cielo e i fratelli del mondo.
E il vino, saporito “frutto della vite e del nostro lavoro”, non rappresenta la gioia solitaria o il dolore chiuso a ogni orizzonte, ma gioie e dolori tessuti in fraternità, portati nella speranza che dice: io affido a Te ogni dolore e ogni sorriso perché diventi per noi, nella potenza del tuo Spirito, “bevanda della salvezza”.