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Chiamati alla missione: Per formare un popolo

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L’idea di popolo oggi perde progressivamente terreno. Stretto tra “villaggio globale” e villaggi di sapore antico (etnie, leghe, campanili), il senso di appartenenza a un popolo si stempera e rischia di apparire un fatto burocratico o solo organizzativo, legato a governo, stato, imposte da pagare… Pochi lo legano a una storia comune e a un comune destino.

Dio comincia dal popolo. Perciò stupisce che Dio, per portare la salvezza al mondo, abbia cominciato a formare un popolo, il suo popolo. Importanti le parole del Concilio: “In ogni tempo e in ogni nazione è accetto a Dio chiunque lo teme e opera la giustizia. Tuttavia Dio volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza legame tra loro, ma volle costituire di essi un popolo. Scelse quindi Israele perché fosse il suo popolo, stabilì con esso un’alleanza e lo formò manifestando lentamente Se stesso e i suoi disegni… nella sua storia” (Lumen gentium, n. 9).

Non esisteva ancora. Israele non esisteva quando Dio lo scelse. Il bello di Dio sta in questo: sceglie ciò che ancora non esiste e, scegliendo, lo crea.

In Egitto c’era una massa di schiavi che Ramses III costringeva ai lavori forzati per costruire le città-deposito di Pitom e di Ramses. Dio vide la pena di quegli oppressi e “se ne fece carico” (Es 2,25). Non solo: in quei diseredati costituì la radice di salvezza per l’umanità. L’impresa di Dio fu di liberarli dalla schiavitù, mantenerli uniti, farne un popolo e stabilire con il popolo un’alleanza, in vista dell’Alleanza definitiva con l’umanità.

Salvato per salvare. A quest'impresa Dio aveva predestinato Mosè, uno che avrebbe dovuto morire appena nato e che invece fu salvato per la salvezza. La storia di Mosè è complessa: liberatore, profeta, guida, intercessore... Ma una cosa risalta: il suo amore per quel popolo che, in qualche modo, usciva dalle sua viscere. Popolo difficile e ingrato, sempre in vena di proteste e di rivolte; popolo “dalla testa dura”, come lo chiama la bibbia. Eppure Mosè lo ama. Quando Dio stesso se ne stanca, lui lo difende (Es 32,9-14). Benché poco dotato, vuole a ogni costo che “riesca nella vita”, come capita a ogni papà per il proprio bambino.

Mosè è figura di Cristo. Il tipo di rapporto che Mosè ha con il suo popolo lo ritroviamo nel rapporto di Gesù con i Dodici, e poi nel rapporto di Cristo con la chiesa.

Due cose ci preme osservare:

  • Amore viscerale. Nella vocazione missionaria del cristiano c’è questo amore viscerale per il popolo di Dio, che è un popolo da formare, mai ben realizzato nella storia; un popolo che dà scandalo al mondo con la sua divisione, che si dimostra continuamente infedeleall’Alleanza, che tende a mimetizzarsi nel mondo e non si presenta quasi mai come popolo delle Beatitudini… Eppure, questo popolo - che è la Chiesa nel suo pellegrinaggio terreno - è amato dal cristiano-missionario con un amore forte e purificatore, mistico e operoso.
  • Amore inclusivo. Quest'amore per il nuovo popolo di Dio non è unamore “esclusivo”, ma un amore “inclusivo”: non tende a segnare i confini, a escludere chi non sta dentro, ma percepisce il Popolo in gestazione presso ogni popolo, ogni cultura, ogni religione. Infatti, da ogni parte della terra Dio raccoglie i miseri e li affida a dei Mosè liberatori.

Quando amiamo la Chiesa, la amiamo diffusa in tutta la storia umana, da dove i missionari (noi tutti, in qualche misura) ne riuniscono i componenti, come un pastore riunisce il suo gregge disperso.



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