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Unasikia, padiri ao unasikiliza? (senti o capisci, padre?)”. E così scoprivo quello che non avevo mai scoperto o a cui non avevo mai fatto attenzione nella lingua italiana. La differenza tra il sentire (con le orecchie) e il capire con il cuore. Ma l’Africa mi ha insegnato anche questo. Cantando un canto religioso “Heri mwenye kusikiliza…(beati quelli che ascoltano…)” ho capito la differenza.

E da lì, forse per la prima volta, ho cominciato a prestare attenzione a quello che mi veniva detto.

Quante cose noi sentiamo: rumori, parole…e solo a quelle che ci interessano prestiamo ascolto, poi magari le dimentichiamo. Invece dovevo cominciare, non solo a sentire con le orecchie, ma a capire quale era il messaggio che mi veniva annunciato. E così le parole cominciavano a prendere un significato diverso. Un primo esempio è stato il conoscere il significato dei nomi delle persone, sia in Congo che in Camerun.

Spesso il nome dato a un bambino nasce dalla situazione in cui viene al mondo. “Yalala” (letamaio) se la mamma ha partorito in quella particolare situazione. “Machozi” (lacrime) se c’era un motivo per piangere. “Matata” (problemi) se in famiglia o nel vicinato c’erano delle difficoltà. “Furaha” (gioia): la spiegazione è semplice. Poi se uno si chiamava “Swedi Bin Ramazani (Swedi figlio di Ramazani) era come dire, seguendo il Vangelo: Simone figlio (bar) Jona….Gli esempi sono tanti.

Così anche i nomi degli animali che erano protagonisti delle storie, come “Alembelembe” (la rondinella bianca e nera), “Sungura” il coniglio, “Kobe” la tartaruga, “Simba” il leone, “Mamba” (il coccodrillo), “Kiboko” (l’ippopotamo”…Era una scoperta continua che mi ha aiutato, al ritorno in Italia a capire meglio, andando in qualche luogo, perché venivano dati dei nomi speciali ai paesi o a delle località. Là era capitato qualcosa di speciale e la gente, con quel nome, voleva trasmettere un’esperienza di vita a chi ci andava. Questo dare importanza alle parole mi faceva entrare nella ricchezza della cultura, a inculturarmi meglio e quindi ad amare il popolo che la viveva.

Naturalmente i proverbi, a cui in Italia tempo fa si dava una dovuta importanza, mi facevano entrare nella saggezza popolare. C’era una tribù, i Warega, del Congo RDC, che avevano l’abitudine, per trasmettere un messaggio, di stendere all’inizio del villaggio una corda con degli oggetti. Questi oggetti, messi insieme, facevano un proverbio.

Qualche esempio per capirci meglio. Se era sospesa sulla corda una piccola fascina di legna (rami legati insieme), voleva dire che il villaggio doveva essere unito, solidale e ognuno doveva dare il suo contributo per realizzare questo ideale. Se c’era una formica nera, essa era il simbolo del coraggio, della docilità, dello zelo nel lavoro, del dono di sé alla collettività. Invece un piccolo machete (coltellaccio) in miniatura spiegava questo proverbio “Fai bene il tuo lavoro, affinchè il lavoro prenda cura di te (cioè se fai male il lavoro che ti è stato chiesto di fare o che tu hai scelto, resterai presto senza lavoro, non avrai più niente da mangiare e niente da dare ai tuoi figli). Un ultimo oggetto è il termitaio. E’ spesso il simbolo degli antenati, luogo d’incontro con loro (perché le termiti percorrono le profondità del suolo dove gli antenati sono sepolti) e con la terra viva. E’ per questo che ci si serve per costruire la cucina (i tre appoggi, le tre pietre, per le pentole della cucina) dove si prepara il cibo che dà forza alla vita degli uomini.

Piccole cose, piccoli gesti, ma per chi sa vedere ed ascoltar, aiutano a crescere. Li abbiamo attorno a noi. Allora proviamo a scoprirli.



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