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Padre, Sei il benvenuto in casa mia

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Era un giorno come tanti nella parrocchia di Nefa, a Bafoussam in Camerun. Insieme a un collaboratore, decidiamo di andare a visitare alcune persone a Djingah, una delle succursali della parrocchia. Dopo aver percorso alcuni chilometri di strada asfaltata, ci dirigiamo verso la chiesetta del quartiere. All’asfalto, si sostituisce la polvere.

Facciamo salire Nicole, la responsabile della comunità che ci condurrà a visitare alcune persone anziane e naturalmente ci tradurrà dal francese nella lingua locale. Passiamo vicino alle scuola e al campo da pallone (dove ogni tanto vado ad arbitrare qualche partita di calcio) ed ci avviciniamo alle case, circondate dai bananeti e dalle canne da zucchero. Lasciamo la landrover all’inizio del sentiero e ci avviamo a piedi verso le capanne del villaggio. Nicole bussa alla porta (veramente era già aperta) e un bambinetto esce di corsa, mandato dalla nonna per accoglierci.

Entriamo, facendo attenzione a non battere la testa contro lo stipite. E’ un po’ difficile vedere dove andare, perché è tutto buio. All’interno, spesso si fa anche da mangiare e le pareti sono annerite dal fumo, così come il soffitto. Pianopiano gli occhi si abituano. Salutiamo la vecchietta che ci accoglie sorridendo. Il nipotino mi dice di sedermi, mentre va a prendere una ciotola di arachidi bollite. La nonna gli dice di andare a comperare una bottiglia di fanta per il padre. E si comincia a parlare. Nicole traduce e anche il mio accompagnatore. Ci si scambiano le notizie, si ride insieme. La vecchietta è molto curiosa e vuole sapere notizie del padre, della sua famiglia, e…i pettegolezzi della città. Ogni tanto sgranocchiamo le arachidi. Sono buonissime.

Nel frattempo il nipotino era arrivato con la bibita. Io non riesco a togliere la capsula con i denti. Ma ci pensa il mio accompagnatore. Ringrazio e bevo un sorso. La offro anche a chi mi accompagna, ma mi dicono che questa era per me. Loro bevono l’acqua. Mah, pazienza, mi rassegno… E il tempo passa. Alla fine dico a Nicole che è tempo di andare. Quanto tempo eravamo rimasti? Non lo so, ma credo almeno mezz’ora o più.

L’importante era esserci fermati da lei.

Sto per alzarmi. La vecchietta mi prende le mani e mi dice: “merci, merci, mon père” (forse erano le uniche parole di francese che conosceva). Io non so più cosa dire, mi sento in imbarazzo. Poi, mi faccio forza, e anch’io dico: “merci, maman”. Nicole sorride e anche JeanMarie che mi faceva compagnia. Usciamo e lei mi prende ancora la mano. Forse voleva essere sicura che sarei tornato. Dico a Nicole che, se sarà possibile, verremo ancora.

Ero molto emozionato. Lei mi aveva ringraziato, ma ero io he dovevo dirle grazie.

Poi, JeanMarie mi spiega quello che è successo, cioè la nonna mi aveva ringraziato, perché io ero venuto a casa sua, avevo condiviso un po’ del mio tempo con lei e questo era un grande regalo. Qualcuno si era accorto che lei esisteva. Piccoli gesti, semplici parole, ma ricchi di amore.

E’ bastato poco, ma è rimasto molto nel mio e nel suo cuore. Merci encore, maman. (grazie ancora, mamma)



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