[dal sito Missionarie Saveriane] *
Ci sono termini che con il tempo si logorano, diventano quasi invisibili o, quanto meno, inefficaci. Credo che uno di questi sia proprio il termine «missione». Se, tra i tanti significati, missione è andare verso gli altri nel nome di Gesù, se è uscire da se stessi e dal proprio mondo per fare del bene a chi è più bisognoso e dimenticato, allora missione è un po’ tutto.
Anche noi, che per grazia del Signore, abbiamo consacrato la nostra vita alla missione ad gentes, cioè all’annuncio del Vangelo ai non cristiani, facciamo fatica a non lasciarci inghiottire da queste generalizzazioni, che, seppure spingano al bene, non ci aiutano a mantenere alta la bandiera del primo annuncio a chi quel Vangelo non lo conosce.
Per me, che ho speso la vita nella preparazione alla missione di giovani sorelle, questa è stata la sfida e la domanda che non mi ha mai lasciata in pace. Non mi ha lasciata in pace quando si dovevano cercare le strade più consone per formare le nuove generazioni a questo compito e quando io stessa dovevo e potevo gridare quanto fosse urgente riscoprire la bellezza del primo annuncio, di quella notizia che ha messo sottosopra i criteri di ogni forma di pensiero, religioso e no.
E sono tornata al Vangelo.
Mi sono accorta che lo davo per scontato, ma così non era. Non lo conoscevo, e non lo conosco né vivo tuttora abbastanza. É iniziata così l’avventura più bella della mia vita. Il Vangelo, e non solo, tutte le Scritture, sono davvero la parola che salva, che dà un senso alla nostra terra in cerca di felicità e pace.
Anche Gesù ha fatto fatica a uscire dalla sua terra, ad aprirsi ai lontani.
Prima di tutto Israele, prima di tutto Gerusalemme! C’è voluta una donna pagana per strappargli le briciole di Vangelo che cadevano dalla tavola dei figli, per farlo cedere alla sua ostinazione di madre: una figlia malata, sia essa straniera o no, credente o no, è comunque un dolore lancinante.
Da quella fede senza frontiere Gesù ha imparato a moltiplicare i pani anche sulla riva del lago abitata dai nemici. E poi giù, giù, fino alla passione. Non voleva morire per un gruppo o per un popolo soltanto, voleva morire per tutti: corpo spezzato, vino versato per i domani del mondo, per ogni uomo e donna che si fossero lasciati conquistare da quella memoria. Dalla croce è scaturito un mare di perdono anche per i suoi uccisori, d’allora come di oggi.
E poi quel monte di Galilea, da cui si poteva contemplare un orizzonte che si apriva verso ogni dove. Gesù risorto era lì, a farsi vicino ai discepoli spaventati, increduli, a rincuorarli, a renderli suo corpo, sua parola per le strade del mondo: “Andate e mostrate a tutti come si diventa buone notizie viventi. Se fate questo, io sarò con voi e dentro di voi, sempre”.
Anche le prime comunità cristiane hanno patito la tentazione di difendere i propri confini e le antiche tradizioni, arrivando spesso in ritardo di fronte alle sfide a cui le obbligava la storia. C’è voluta l’intrepidezza dell’uomo folgorato sulla via di Damasco a squarciare il cielo chiuso in una stanza. Paolo, l’aborto, come lui si definiva, che mai aveva incontrato Gesù, fu reso dallo Spirito l’apostolo dei non circoncisi, ossia di quelli che non osservavano la Legge di Mosè. Paolo si fece una sola cosa con il Cristo che “mi ha amato ed è morto per me”, e con il suo Vangelo, fino a chiamarlo con ardimento “il mio” Vangelo.
Vorrei ripetere con lui: “Guai a me se non annuncio il Vangelo, se non mi faccio serva della Parola”.
Forse questo mi renderà anche capace di leggere i vangeli che Gesù continua a scrivere sulle righe storte della nostra umanità, sui cuori dei più lontani dalla fede, sulle storie finite male di tanta gente:
anche loro annuncio da me tanto atteso, cercato e, vorrei dirlo con umiltà, indispensabile alla mia gioia.