Fu questa la domanda posta, come provocazione, ad un gruppo di missionari del Consiglio Indigenista Missionario (CIMI). Concretamente si voleva sapere:
- Se Gesù fosse nato in un villaggio kayapò, chi sarebbero stati i suoi genitori?
- Dove sarebbe nato? Chi lo avrebbe visitato al nascere?
- Che paragoni (parabole) avrebbe usato per annunciare:
> l'amore del Padre che sempre perdona? (Figlio prodigo)
> la fiducia nella Provvidenza? (Uccelli dell'aria, gigli del campo)
> il risultato della parola di Dio nei vari destinatari? (Seminatore)
- Chi sarebbero stati i suoi avversari?
- Quale sarebbe stato il menu dell’ultima cena?
- Con che morte sarebbe stato ucciso?
Quello che era sembrato, in principio, uno scherzo, si rivelò un esercizio estremamente necessario e inaspettatamente arduo.
Necessario, perché, per annunciare il messaggio di Cristo senza violentare le culture, bisogna scoprire per ognuna d’esse forme concrete di incarnare i valori cristiani.
Arduo perché tale lavoro esige una conoscenza profonda sia del messaggio cristiano che della cultura di ogni popolo. L'approccio superficiale e quasi ludico con cui cominciò il lavoro, ben presto si rivelò insufficiente.
Cosa ci dice la storia?
Il Papa Benedetto XVI, nel suo discorso di apertura della V Conferenza dei Vescovi dell’America Latina e dei Caraibi (Aparecida 2007), affermò: "L'annuncio di Gesù e del suo Vangelo non comportò, in nessun momento, un'alienazione delle culture precolombiane, né fu un'imposizione di una cultura straniera".
Le sue parole suscitarono un putiferio, specialmente in mezzo ai popoli indigeni ed alle loro associazioni. Il chiasso fu tanto che pochi giorni dopo, già a Roma, Benedetto XVI si vide obbligato a puntualizzare: “Certamente il ricordo di un passato glorioso non può ignorare le ombre che accompagnarono l’opera di evangelizzazione del continente latino-americano: non è possibile dimenticare le sofferenze e le ingiustizie che inflissero i colonizzatori alle popolazioni indigene, calpestate nei loro diritti umani fondamentali…” (Benedetto XVI, Udienza Generale, 23 maggio 2007).
Di questa differente lettura della storia abbiamo un curioso riscontro nel documento finale di Aparecida.
Il testo originale, in spagnolo, riportava – citando il n. 3 del Discorso inaugurale del papa alla V Conferenza: “La evangelización ha ido unida siempre a la promoción humana y a la auténtica liberación cristiana”. (DA 27). La traduzione (ufficiale) portoghese, citando la stessa fonte, dice: “La evangelização vai unida sempre à promoção humana e à autêntica libertação cristã”. (DA 27)
Il primo testo, come abbiamo visto, è stato fortemente contestato dagli interessati come contrario alla verità storica e, finalmente, corretto dallo stesso papa, ma è rimasto intatto nel documento. Il traduttore portoghese ha dato il proverbiale “jeitinho” brasiliano, salvando capra e cavoli.
Furberie a parte, il delicatissimo problema della “inculturazione” resta intatto.
Le parole di Benedetto XVI nella stessa occasione, non fanno una piega:
- Cristo, essendo realmente il Logos incarnato, "l'amore fino alla fine", non è estraneo ad alcuna cultura né ad alcuna persona; al contrario, la risposta desiderata nel cuore delle culture è quella che dà ad esse la loro identità ultima, unendo l'umanità e rispettando contemporaneamente la ricchezza delle diversità, aprendo tutti alla crescita nella vera umanizzazione, nell'autentico progresso. Il Verbo di Dio, facendosi carne in Gesù Cristo, si fece anche storia e cultura. (Benedetto XVI, Aparecida, 13 maggio 2007).
Ammaestrati dalla storia e resi guardinghi dalle nostre debolezze, dobbiamo trattare il problema con una speciale circospezione. Oggi in modo speciale.
Alberi, pesci e Vangelo
L’evangelizzazione degli indios che oggi ci è proposta, avviene nell’esatto momento in cui le loro terre sono espropriate, occupate e saccheggiate, i fiumi invasi, contaminati, privatizzati, e la stessa sopravvivenza fisica posta in rischio. Privata della sua base materiale (habitat, alimentazione, spazi culturali…), la cultura indigena da segni di esaurimento. I dirigenti tradizionali sono spesso cooptati oppure squalificati.
Un’azione evangelizzatrice meno oculata, in questo momento, potrebbe essere l’ultima spallata al traballante muro su cui essa è costruita. Il Vangelo, trasmesso senza le necessarie cautele, potrebbe diventare anch’esso elemento disgregatore delle società tribali. E non sarebbe la prima volta.
Ma c’è di più. L’evangelizzazione dei Kayapó, così come quella di ogni altro popolo, deve saper separare chiaramente ciò che è essenziale all’annuncio e quelle che ne sono le rivestiture culturali attraverso le quali è passato.
Altrimenti non faremo dei cristiani, ma delle brutte copie di indios.
Nel vangelo di Matteo, vediamo Gesù in polemica con scribi e farisei, e lo sentiamo affermare:
- Guai a voi, ipocriti, maestri della legge e farisei. Voi fate lunghi viaggi per terra e per mare pur di riuscire a convertire anche solo un uomo, ma poi, quando l’avete conquistato, lo fate diventare degno dell’inferno, peggio di voi. (Mt 23,15)
Quando provetti missionari trovano difficoltà ad “immaginare” un Gesù Kayapò, bisognerà suonare il campanello d’allarme. Siamo pronti a portare agli indios il Cristo, immagine luminosa del Padre, o rifileremo loro una caterva di norme, riti, leggi che lo appesantiscono, lo deformano e, finalmente, lo negano?
La storia dell’espansione delle religioni – non esclusa la cristiana – accanto a pagine luminose di rispetto e valorizzazione dei popoli e delle loro culture, presenta troppi esempi di violenza e sopraffazioni, perché ci dispensiamo dall’essere più che guardinghi.
Savio Corinaldesi.