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LETTERA - 13: Diventare piccoli (dopo essere diventati grandi)

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Charre, 17 gennaio 2015.

0. Latitanze.

La pioggia dà il nome ad una stagione. Comincia a cadere con la luna nuova, se va bene con quella di novembre o di dicembre. Alcuni giorni prima si alza lo mbalo, vento che da nord-ovest soffia verso sud-est. I Sena dicono che va verso l’oceano e torna con la sua sposa, la pioggia appunto. Poi lo mbalo si ferma: calma di vento e caldo impossibile che toglie aria al respiro. Tutto si arresta immobile e attende. Attende la terra secca della savana. Attende la terra zappata da ore sotto il sole e pronta per essere seminata. Attendono gli alberi per germogliare. Attendono gli uccelli e gli animali rinsecchiti. Quando comincia a cadere, i bambini nudi a giocare sotto l’acqua sono il primo germoglio della vita che ricomincia.

Cambio di una stagione, notti torride dopo il sole infuocato del giorno, profumo della prima pioggia. Dopo tanta latitanza, la prima pioggia, è redentrice. Fa bene alla terra e fa bene anche al cuore. Un po’ come la neve altrove, la pioggia arresta il movimento: le strade diventano torrenti e poi fango che si prolunga per giorni. La pioggia costringe in casa. Rallenta la vita, la dilata ed aiuta ad entrarci dentro. Ci voleva la fine della latitanza della pioggia per ricordare una mia latitanza: quella da un impegno preso di una parola condivisa ogni tanto con chi è distante nella geografia dello spazio ma non nella geografia del cuore.

Alla fine di ottobre è nata Rosa, quarta figlia di mia sorella Valeria e di suo marito Alberto. Anche lei, come Lucia, è nata che io già stavo in Africa. Quando mia sorella mi chiama, Edda, la più grande, mi racconta dell’asilo e dei giri in bici sull’argine del Po con mamma e papà. Io le racconto delle scimmie della foresta, della bocca dei coccodrilli e del culone degli ippopotami.

Non vorrei che le mie nipoti pensassero che, con il fatto che è distante, lo zio sia anche latitante. Lo mbalo e il grande caldo preparano la pioggia. Se la portano dentro. Come lo mbalo e il grande caldo portano dentro la pioggia, anche io le porto dentro. Dentro nella testa, dentro nel cuore. Dalla terra e dagli alberi, anche io imparo ad attendere. E quando testa e cuore imparano ad attendere portando dentro, la latitanza si annulla come la siccità con la prima pioggia.

Le porto dentro. Penso a loro che ora sono piccole. Passerà il tempo. Impareranno tante cose, tante altre le dimenticheranno. Sbatteranno la testa contro il muro e si rialzeranno. Piangeranno e saranno felici. Vivranno la loro vita. Diventeranno grandi. Poi, forse, arriverà un momento nel quale cominceranno a domandarsi se per essere felici si deve rimanere grandi. O forse non vale la pena diventare piccoli. Perché tra l’essere piccoli e il diventare piccoli può starci di mezzo una vita intera.

1. Andare dentro la vita ci fa diventare piccoli.

Poche settimana fa, prima dell’inizio delle piogge, abbiamo terminato di incontrare per la seconda volta in un anno le 82 comunità che compongono la nostra parrocchia. Per otto mesi, tutti i fine settimana sono andato a spasso per questa fascia di terra, estesa più di 200 chilometri e delimitata dal grande fiume Zambesi e dai rilievi montuosi che fanno da confine col Malawi. Per tre mesi sono andato da solo, dato che p. Cesare era in ferie. Non ho contato le ore di macchina, i chilometri fatti, le gomme bucate e le albe contemplate essendo al volante già da un pezzo. Così la prima domenica libera da calendario, vado a fare Eucaristia nella vicina comunità di Bawe in bicicletta. Il giorno prima avevano cominciato a sistemare la strada sterrata, cospargendola di sabbia e ghiaia. Il cammino è impraticabile e in vari tratti accompagno la bici a mano. Comincio la via del ritorno alle due del pomeriggio con quaranta gradi ed un sole impietoso. Per strada incontro decine di persone con le bici cariche di merci da vendere che fanno spola tra il vicino Malawi e il mercato di Mutarara. Arrancano sprofondando nella sabbia. Un giovane mi dice che deve fare settanta chilometri per arrivare al suo villaggio. Arrivato a casa, galleggiando nel sudore, dopo avere bevuto una bottiglia di acqua, ho fatto il caffè e davanti alla tazzina mi sono detto: «Caro Andrea, per parlare della sofferenza della gente, prima, devi conoscere. Per conoscere, prima, devi fare esperienza. Per fare esperienza, prima, devi andare dentro la vita».

Sono due anni e mezzo che non guardo un film e altrettanti che non leggo un libro scritto dall’altra parte dell’equatore. Ho amato la letteratura, il cinema, la poesia, il teatro. Tutt’ora li amo e ogni tanto provo anche nostalgia. Ma sono un po’ come il caffè al bar. Posso farne a meno e vivere felice lo stesso. Quando avevo vent’anni e voleva provocarmi, mio padre mi diceva che vivevo con la testa tra le nuvole. Non so se aveva ragione. Io so che ero felice. Ma so anche che se avessi continuato così le periferie, i poveri, le lotte per rivendicare il diritto ad una vita degna, la sete di libertà e di giustizia, li avrei solo letti sui libri o su “il manifesto”. O, al massimo, visti al cinema, in un film di Ken Loach o dei fratelli Dardenne.

La disuguaglianza ha il sapore amaro degli alberi secolari di Nkhulece, Dovo e Minjale portati via dai cinesi. I poveri hanno il volto delle vedove aiutate dalla comunità cristiana a rimettere in sesto il tetto della propria capanna e che si trovano costrette a votare il candidato del partito al potere che ruba la metà del loro sussidio di anzianità se non vogliono perdere anche l’altra metà. I sentieri della giustizia passano in mezzo alla terra fertile della nostra gente e che una multinazionale ha cominciato ad espropriare per impiantare la monocultura della canna da zucchero. La lotta per rivendicare il diritto ad una vita degna è la parola consapevole proferita senza paura e con il sorriso sicuro sulla bocca dai responsabili delle Commissioni di Giustizia e Pace delle nostre comunità che si impegnano per fare conoscere la Legge della Terra e per organizzare la resistenza di chi non si rassegna a perdere «la terra che è stata dei nostri antepassati e che sarà dei nostri figli».

Andare dentro la vita. Andare dentro la nostra vita: aprire gli occhi, dilatare il cuore, conoscere, toccare con mano, formarsi un pensiero sul mondo e sui suoi meccanismi di potere, imparare a camminarci da donne e uomini liberi. In punta di piedi e chiedendo permesso, andare dentro la vita degli altri: incontrare, ascoltare, accogliere, condividere, lasciarsi cambiare, prendersi cura, sentirsi responsabili, scegliere la parte dei piccoli e degli ultimi, camminare assieme e - quando è necessario - lottare assieme a loro. Questo pensavo nel primo pomeriggio di una domenica d’estate, in mezzo alla savana, col sole allo zenit, spingendo la bicicletta che affondava nella sabbia, galleggiando nel mio sudore.

2. Il Vangelo ci fa diventare piccoli.

Mãe Virgína, anziana vedova senza figli, la domenica a fatica cammina i tre chilometri che separano la sua capanna dalla chiesa. Arrivata, siede sempre per terra davanti, assieme alle altre vedove. Non c’è  una domenica che dimentichi la sua offerta, nonostante sia risaputa la difficoltà con la quale ogni giorno mette assieme il cibo quotidiano. Dopo che la comunità cristiana di Charre ha ricostruito il malandato tetto in paglia della sua capanna, mãe Virgína ha ringraziato, ha guardato verso il cielo ed ha esclamato felice: «Mulungu ndi mphambvu ya anyakucherenga», vale a dire «Dio è la forza dei poveri». Poi mi ha invitato ad entrare nella sua capanna, ci siamo presi per mano ed abbiamo pregato.

Mãe Virgína non sa leggere, né scrivere, né parla una parola di portoghese. Conosce solo il Chisena. La vita di mãe Virgína è intessuta di Vangelo. È la fede dei poveri e dei piccoli, di chi non ha nessun altro in cui porre fiducia e speranza e può solo dire dal profondo del cuore: «Mulungu ndi mphambvu ya anyakucherenga».

Pai Enfermeiro si chiama così non perché sia infermiere, ma perché quando nacque sessanta anni fa sua madre non aveva trovato altro modo per ringraziare l’infermiera che l’aveva aiutata a dare alla luce. Pai Enfermeiro ha due figli che stanno altrove e vive solo nella capanna il cui tetto è stato ricostruito dalla comunità cristiana  appena prima che cominciassero le piogge. Ogni domenica arriva in chiesa accompagnato da un ragazzino che spinge la sua carrozzella. Pai Enfermeiro è lebbroso da più di vent’anni. È una forma di lebbra piuttosto aggressiva che gli ha fatto già perdere le mani e i piedi. Strisciando per terra, ride ed esclama felice: «Baba Andrea, mwaona, ndisafamba na matako!», vale a dire «Padre Andrea, hai visto, cammino con il culo!». Dice che la lebbra gli è venuta perché quando era giovane gli fecero un ufiti. Era sposato, aveva una podere fertile che produceva due raccolti di miglio all’anno. Era felice. Qualcuno, per invidia o per impossessarsi di quella fortuna, ricorse ad un maleficio. Ecco spiegato l’ufiti, causa della lebbra.

Vengo a sapere che le cure per la lebbra in Mozambico sono pagate dalla cooperazione internazionale e quindi gratuite per i pazienti. Vado all’ospedale rurale di Mutarara e conosco l’infermiere responsabile degli infettivi. Il giorno successivo ci torno con pai Enfermeiro. Pai Enfermeiro racconta all’infermiere la storia dell’ufiti, mentre l’infermiere spiega a pai Enfermeiro che la lebbra che lo sta divorando, se non curata, gli farà perdere anche braccia e gambe, oltre che la vista. Il giorno stesso pai Enfermeiro comincia la cura contro la lebbra. Sei pastiglie il primo giorno e due tutte gli altri. Così per un anno. La lebbra non sarà più infettiva e, soprattutto, verrà bloccata. Striscia fino alla jeep, ma stavolta da uomo rinato. Lo aiuto ad alzarsi e, con un colpo di reni si lancia sul cassone. Arrivati alla sua capanna mi chiede di fermarmi ancora un po’. Prima di cominciare la cura con le sei pastiglie del primo giorno desidera pregare assieme. Poi sorride ed esclama: «Mulungu ndi mphambvu ya anyakucherenga».

Il Vangelo che intesse la vita di mãe Virgína e di pai Enfermeiro è lo stesso che intesse la mia vita. Ho cominciato a prenderlo in mano alla fine del liceo. Cercavo risposte ad un cammino di fede che fino ad allora mi pareva di avere ereditato da altri e non fatto mio fino in fondo. Ogni notte, prima di chiudere gli occhi ne leggevo alcune righe. Ricordo che cominciai col Vangelo di Matteo. Mi affascinava l’uomo Gesù. La bellezza, la potenza, la poesia e la radicalità delle sue parole. La coerenza tra le parole e la vita. Il suo modo di entrare in relazione con le persone. La sua umanità nel cercare ciò che di più divino c’è nel profondo di ogni persona. La sua ostinazione fino ad incontrare un poco di grano buono anche in mezzo ad un campo di zizzania. Il suo stare dalla parte dei piccoli, dei poveri e degli ultimi. La sua fermezza nel porsi di fronte ai potenti e ai prepotenti. La sua delicatezza nel prendere per mano e aiutare a rialzarsi chi le circostanze e le scelte della vita avevano fatto cadere. Il suo raccontare di Dio parlando ai contadini della semente gettata nel campo, ai pescatori delle reti e dei pesci, ai pastori delle pecore perdute, alle donne della farina e del lievito. In una parola, mi affascinava il suo andare dentro la vita degli altri, per fare scoprire che lì dentro ci abita Dio.

Poco alla volta mi rendevo conto che tutto ciò in cui credevo e per cui mi impegnavo convergeva lì, nel Vangelo, radice di sintesi delle tante radici della mia vita. Cominciai a pensare che sul Vangelo poteva starci la scommessa di una vita intera. Cominciai col prendere in mano il Vangelo. Poi è stato il Vangelo che ha preso per mano me.

3. I piccoli ci fanno diventare piccoli.

Il 18 dicembre, nella tarda mattinata, l’attesa è terminata. Con lo mbalo immobile dal giorno prima, forte e persistente, è cominciata la prima pioggia. Il giorno successivo la gente esce all’alba dalle capanne col sorriso sulla bocca e la zappa sulla spalla per andare a seminare. Io devo andare a Nyaeka, villaggio a 40 chilometri da Charre, sulle rive del fiume Chire. Con pai Felizardo, responsabile di Giustizia e Pace della comunità cristiana, dobbiamo incontrare alcune famiglie espulse dalla propria terra dalla multinazionale della canna da zucchero. Basta la prima pioggia e le strade sono già matope, parola che significa “fango” in Chisena. Inserisco la trazione anteriore e arrivo a Nyangoma con un po’ di difficoltà. Serafino mi offre il caffè e proseguiamo insieme. Poco più avanti, la macchina sprofonda nel matope. Tutte e quattro le ruote sono dentro. Niente da fare neanche col blocco del differenziale. Serafino rimane lì con la macchina. Io proseguo a piedi nel fango.

Arrivato a Nyaeka, con pai Felizardo andiamo ad incontrare pai Araujo nella sua capanna a due passi dallo Chire. Ci conosciamo, mi mostra la sua canoa, scambiamo due parole. Poi indica il fosso scavato dal trattore dell’impresa come segnale di demarcazione e comincia a raccontare. Pai Araujo aveva un campo di cinque ettari che da sempre era stato della sua famiglia. Un giorno di ottobre di tre anni fa sono arrivati i trattori e hanno scavato il fosso che tuttora circonda la sua capanna. All’interno del fosso, oltre alla capanna, hanno lasciato un piccolo orto e il cimitero di famiglia. Quest’isola in mezzo al mare verde della canna da zucchero è ciò che rimane di quello che un tempo era il campo di pai Araujo. Espropriato dalla propria terra. Senza essere consultato, senza preavviso e senza un metical di indennizzo.

Più avanti incontro alcune famiglie, prima nella chiesetta della nostra comunità e poi in una seconda riunione sotto un grande albero. La maggior parte non sono cattolici. Ci presentiamo e preghiamo insieme. Con pai Felizardo spieghiamo il lavoro che stiamo facendo con le Commissioni di Giustizia e Pace delle nostre comunità. Partiamo da quello che la gente sta vivendo. Intere famiglie cacciate dalle proprie terre a partire dal 2012 a Nyaeka e Goba. L’intenzione dell’impresa di acquisire un’area di 36000 ettari. Il fatto che la Legge della Terra è stata impunemente violata sia dall’impresa stessa che dal governo provinciale, dato che non sono state compiute le consultazioni pubbliche per informare la popolazione residente e, soprattutto, dopo essere state espropriate le famiglie non hanno ricevuto alcun indennizzo. L’urgenza di fare conoscere la Legge della Terra per essere coscienti dei propri diritti e la necessità di unire le forze, al di là delle differenze di partito e di religione, per essere una voce unica. Il lavoro di coscientizzazione che stiamo portando avanti, punto di partenza per poi muoverci con l’appoggio dell’avvocato nel mese maggio quando saranno terminate le piogge.

La donne prorompono nel grido del nthungululu, gli uomini battono le mani. Non hanno strade, non hanno energia elettrica, l’acqua da bere è quella del fiume che ora, con le piogge, ha il colore del fango. Per andare a scuola i bambini devono fare chilometri. Ancora di più devono farne le madri per portare al posto di salute i figli che prendono una banalissima diarrea o la malaria. Hanno solo la loro terra. Quella maledetta e benedetta terra che, scavata dalla zappa e imbevuta di sudore, dà loro il cibo. Hanno solo la loro terra che è la loro vita. Forza di poveri, potenza dei piccoli che per disperazione o per istinto di sopravvivenza o forse proprio per presa di coscienza della propria forza di poveri, vincono la paura e il senso di rassegnazione e intuiscono di essere più grandi di chi si crede grande solo perché arrogante.

Il sole è ancora alto e assieme al vento che ha fatto terso il cielo sta già asciugando l’acqua della prima pioggia. Mentre camminiamo, con pai Felizardo facciamo i conti: 41 famiglie espropriate per un totale di circa 300 ettari. Il progetto è ancora in fase iniziale ma lentamente avanza. Arrivo alla macchina. Serafino e gli scout hanno fatto il miracolo. Con alcuni assi e due crick hanno tirato fuori la jeep dal matope.

Conclusione. Caramelle, pance grosse e giustizia: i piccoli e i poveri ci indicano la strada.

In questi mesi, ogni volta che andavo in una comunità, prima di fare Eucaristia, ci si sedeva con la gente sotto un grande albero. Ascoltavo come stava andando la vita della comunità, con i suoi problemi e i suoi punti di forza, ci si scambiava idee e proposte, si delineavano cammini. Poi ero solito terminare l’incontro spiegando cosa sono e cosa fanno le neonate Commissioni di Giustizia e Pace. Chiamavo i bambini e tiravo fuori un sacchetto di caramelle. A ciascuno, dopo avere chiesto il nome, domandavo: «Musafuna maswete?», «Ti piacciono le caramelle?». Potete immaginare la risposta e anche il sorriso. Poi, con grande sorpresa da parte di tutti, davo tutte le caramelle del sacchetto ad un solo bambino e domandavo agli altri rimasti senza niente: «Musakomerwa?», «Siete felici?». Anche stavolta non è difficile immaginare la risposta e l’espressione dei volti. Poi facevo tre domande: «Ulinganiri ninji?», «La giustizia cos’è?». «Kukomerwa ninji?», «La felicità cos’è?». «Kufuna kwa Mulungu ninji?», «Il desiderio di Dio qual è?». La risposta dei bambini alle tre domande era sempre la stessa: «Kuti ife tigawirane sawa sawa maswete», «Che noi condividiamo giustamente le caramelle».

Poi parlavamo dei «signori con la pancia grossa grossa», gli «anthu na mimba zikulu zikulu», venuti per rubare la terra dei poveri. Mi hanno detto che a Nyangoma, quando per strada passano le macchine dell’impresa della canna da zucchero oppure quelle dei politici locali, i bambini vi corrono dietro gridando: «Anthu na mimba zikulu zikulu ali kupita!», «Stanno passando i signori con la pancia grossa grossa!». Signori con la pancia grossa che rubano la terra dei poveri, arroganti che calpestano la dignità e la vita dei piccoli. Seppelliti dalla risata dei bambini.

Giustizia, felicità, desiderio di Dio. Sulle grandi questioni della vita noi grandi scivoliamo tristemente. I bambini invece ne afferrano al volo il significato profondo. Come i poveri, gli umili, la gente semplice. Tra l’essere piccoli e il diventare piccoli può starci di mezzo una vita intera.

Ci mettiamo in cammino? Sappiamo chi non si rifiuterà di indicarci la direzione e, prendendoci per mano, sarà felice di fare strada con noi.

  • BABA ANDREA.


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