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Charre, 6 ottobre 2014.

0. Il pane di Carlos e la sera in cui il sole voleva tramontare ad oriente.

Carlos ha un piccolo forno di mattoni in terracotta. Il forno di Carlos è costruito sulla nuda terra, a cinquanta metri da casa nostra, appena al di là della strada polverosa che porta alla frontiera col vicino Malawi. Con le stesse mani con le quali ha fatto il suo forno, Carlos ogni giorno fa il pane. Il pane di Carlos è eufemisticamente sui generis: commestibile, il primo giorno; rimbalza se cade per terra, il secondo giorno; verde di muffa, il terzo giorno. Se i ragazzi della scuola vicina reclamano che il suo pane è poco cotto, Carlos risponde che è per causa della legna: andare a cercarla sulle montagne, kusanensa, cioè “costa fatica”. In effetti, non si può dargli torto. Di fianco al forno, Carlos ha una casetta costruita con lo stesso tipo di mattoni in terracotta. Il tetto in lamiere di zinco, nel tempo del grande caldo, trasforma la casetta in un forno che non ha nulla da invidiare al forno del pane. Lì dentro Carlos vende di tutto: pile, sapone, penne, fiammiferi, tazze di latta, sigarette sfuse. Oltre che, ovviamente, il suo pane. Il mese scorso, appoggiato al tavolo, trovo una copia del Diário de Moçambique, quotidiano stampato a Beira. È il primo giornale che vedo a Charre, da quando sono arrivato qui sette mesi fa. Dopo un primo senso straniamento, l’occhio scivola sulla data prima che sui titoli: 27 di marzo. Al vedermi interessato, Carlos, senza nascondere il suo orgoglio, esclama candido e compiaciuto: «È di quest’anno, signor padre!».

Fine di un tiepido inverno da savana africana. L’erba rinsecchita è un lenzuolo giallo che si distende per tutta la pianura fino al monte Morrumbala. Al pomeriggio, da sud, si alza il bangwe, vento secco e potente che inventa vortici imprevedibili di sabbia e foglie. Il cielo, il più delle volte, è di un grigio denso e compatto. Ma, avaro di acqua, non lascia cadere una goccia. Un pomeriggio, con il cielo più grigio e compatto del solito, mi sembrava di alzare la testa sul cielo della pianura del Po quando è lì per lasciare cadere la neve. Altre latitudini, altri inverni. Quel pomeriggio il sole non voleva saperne di tramontare ad occidente. Al posto dell’incastro dove era scivolato giù fino alla sera prima, ora c’era uno muro spesso di nuvole grigie. Mentre ecco che a oriente il cielo si era tinto di una gradazione sospesa tra il giallo, il rosa e l’azzurro. Quella sera il sole aveva deciso di tramontare ad oriente.

Forse, anche per il fatto di trovare attualissimi i quotidiani di sei mesi prima, può sorgere il pensiero del tutto legittimo di vivere fuori dal mondo. Pensiero plausibile e avvalorato da molteplici altre conferme che non sto qui ad elencare. Ci voleva però quel tramonto ad oriente per scompaginare le carte in tavola e buttare tutto all’aria. Rivoluzione, cambiamento totale di prospettiva. Se il sole ha deciso di tramontare ad oriente, allora qui è il centro del mondo. O per lo meno, caro Andrea, questo è il tuo centro del mondo.

1. Nel centro del mondo si nasce.

Il 7 di agosto è il compleanno di mio padre. Dopo pranzo, tazzina di caffè, seduto in veranda, al telefono per fargli gli auguri. Una signora di età si avvicina, quasi con timore, indecisa sul da farsi. Ancora a distanza, dopo gli abituali convenevoli in Chisena - «Manungo mbadidi? Ku nyumba?», vale a dire, «Il corpo sta bene? E in casa?» - molto pacatamente, mi informa che la figlia si trova nel vicino posto di salute e deve dare alla luce. Ha già avuto una forte emorragia e deve essere portata all’ospedale rurale di Mutarara, a quindici chilometri da Charre. Saluto rapidamente i miei genitori, prendo la jeep e vado al posto di salute. Neanche il tempo di chiedere il nome della donna e l’infermiere ha già caricato sul cassone posteriore della macchina un materasso in lattice cosparso di sangue. La madre e la zia aiutano la donna a salire e a coricarsi sul materasso. Nel frattempo arriva il marito che, visibilmente trafelato, getta a terra la bici e salta sul cassone accanto alla moglie. Nella mia beata ignoranza chiedo all’infermiere se è meglio che vada piano per causa dei buchi nella strada o se invece è meglio vada veloce. Mentre appende una flebo al finestrino della macchina, l’infermiere risponde: «Senhor padre, é melhor que vá rápido. Muito rápido!». Eseguo alla lettera. Per la prima volta metto la quarta sulla strada sterrata che porta a Mutarara, zigzagando tra buche, capre e galline. Arrivato all’ospedale rurale di Mutarara, scendo rapidamente dalla macchina. Confesso che ero pronto al peggio. E invece, durante la corsa, tra un buco e un salto, la madre ha dato alla luce spontaneamente un figlio maschio. Si ride, si canta, si urla, si guarda in alto, si comincia a danzare. C’è poi il tempo di presentarsi con pai António e mãe Zita, diventati genitori per la sesta volta. E c’è anche il tempo per dare il nome al figlio appena nato. «Meu filho chiamar-se-á André!», esclama, colmo di gioia e di gratitudine, pai António.

2. Nel centro del mondo si vive.

Padre Cesare è in Italia per le ferie, qui siamo rimasti in due e il lavoro ha una ragione in più per non mancare. A luglio, nei fine settimana comincio la seconda visita alle comunità. Inizio dalle più distanti: Kampata, Mfefe, Fortuna, Missoche, Nduza... 220 km da Charre, tranquillamente percorribili in sei ore di macchina. Zona di confine col distretto di Moatize – quello dei giacimenti di carbone – e col Malawi. Ciò che nello spazio è confine, nella cultura e nella lingua diventa confronto, mescolanza e fusione. Il Chisena è impastato di Chichewa e di Chinyungwe: incontro difficoltà notevoli nel comprendere. Alcuni costumi sono più radicati. Ad esempio, la poligamia. Dopo avere dormito una notte nella chiesetta di Mfefe, al sorgere del sole noto, tra le capanne del villaggio, una unica casa in mattoni dipinta di bianco. Meravigliato, chiedo chi vive lì. «Mamuna mbodzi na akazi atanthatu». Vale a dire, un uomo con sei mogli. È un commerciante di fagioli e, dove non esistono le banche, sei mogli rappresentano un buon investimento.

Imparo la precarietà e la dipendenza dalla meccanica, pianeta etereo sul quale rimbalzo come un astronauta spaesato che ha perduto ogni nozione minima sul come camminare in assenza di forza gravitazionale. Per un mese e mezzo, tutti i fine settimana che vado nelle comunità - vuoi per le strade che nascondono improvvise pietre appuntite, vuoi per i pneumatici che hanno fatto il loro tempo -  continuo a bucare. Ancora bene che porto sempre con me due ruote di scorta. La situazione assume i tratti del tragico-comico quando dopo essere partito un sabato mattina alle quattro, buco una prima volta al sorgere del sole e, subito dopo pochi chilometri, buco la seconda volta. Mentre cambio rapidamente la gomma, mi chiedo che fare. Torno a casa o proseguo? Ho esaurito le due gomme di scorta e mi aspettano altri cento chilometri il giorno stesso, più i duecento di ritorno il giorno seguente. Penso alle comunità, alla gente che aspetta. Mi assale uno slancio di intrepido impeto missionario e decido di proseguire. Tutto termina per il meglio. Ma potete immaginare il mio stato d’animo mentre guido - con ogni pietra all’orizzonte che diventa nel mio immaginario una sorta di mina antiuomo pronta a farmi saltare per aria- e potete immaginare il profondo sospiro di sollievo arrivato a casa la domenica a notte ormai fonda.

A metà agosto, assieme agli altri Saveriani presenti in Mozambico, ci troviamo a Beira per cinque giorni di desiderati esercizi spirituali. È anche l’occasione per cambiare le gomme alla macchina. Torno a Charre assieme a Bonanne, confratello congolese coetaneo che vive e lavora a Chemba. È inverno, tempo di secca, e optiamo per la strada di Inhaminga. Non è asfaltata, passa in mezzo alla foresta, è poco trafficata – passano solo branchi di scimmie e camion di cinesi carichi di legname pregiato - e consente di risparmiare 170 km rispetto alla strada di Gorongosa. «Gomme nuove, stavolta si viaggia tranquilli» dico tra me e me. Dopo 70 km, accelero e il motore comincia a non rispondere. «Caro Bona, qui è partito il filtro del motore». E ci azzecco. Il meccanico Zé è a Caia: mancano 200 km da farsi in prima, seconda o al massimo in terza nelle discese. Arrivati a Caia nel tardo pomeriggio dopo un viaggio estenuante, Pedro, figlio diciottenne di Zé, cambia il filtro del motore, ma non è sufficiente. «Significa che anche il filtro del serbatoio è intoppato. Bisogna smontare il serbatoio». Pedro, aiutato da altri due ragazzi e nonostante sia all’ottava birra – o, come dice lui, proprio perché è all’ottava birra - fa un lavoro eccezionale. Alle 22.30 arriviamo a Sena. 330 km in sedici ore di viaggio, delle quali tredici seduto a guidare e tre in piedi da Zé il meccanico. La mattina seguente, Bonanne si fa accompagnare a Chemba, mentre io carico la macchina sul battello a motore e attraverso lo Zambesi. Ippopotami e coccodrilli lì a due passi. E non sono allucinazioni causate dalla stanchezza.

Il 15 ottobre ci saranno le elezioni per eleggere il presidente della Repubblica, i membri del parlamento e i membri delle assemblee regionali. Alla fine di agosto il Governo e la Renamo hanno firmato l’accordo di pace, dopo un anno e mezzo di guerra a bassa intensità che ha causato centinaia di morti. Guarda a caso, l’accordo è firmato proprio una settimana prima dell’inizio della campagna elettorale. Più che probabilmente, teatro orchestrato da Frelimo e Renamo per spartirsi assieme al capitale straniero le immense risorse naturali del paese ed estromettere l’MDM, forza alternativa nata sei anni fa che sta facendo della giustizia sociale e della lotta alla corruzione i punti forti del proprio progetto politico. Teatro ben scritturato dalle due parti, dove però le sofferenze e il sangue versato dalla gente non sono artificiali. La campagna elettorale è patetica e grottesca come tante altre campagne elettorali. Chi è calpestato sono sempre i poveri. Ad esempio, qui a Charre, la Frelimo, per assicurarsi il voto, è arrivata al punto di minacciare la revoca del sussidio di anzianità alle vedove. Così donne secche col volto scavato da una vita a zappare sotto il sole, con la polenta di miglio come unico cibo quotidiano, con quattro mucchi di paglia a fare da tetto si trovano costrette ad acclamare i signori dalla pancia gonfia che le rendono schiave.

3. Nel centro del mondo si resiste.

Che faranno queste donne se assieme al diritto al cibo, al diritto alla casa, al diritto alla salute, se assieme alla dignità e alla libertà, sarà portata via anche loro terra? Assieme a queste donne, che farà tutto il popolo di Charre e di Nyangoma? Nei fine settimana di settembre termino di incontrare le ultime delle venticinque nostre comunità che rientrano all’interno dell’area di 36000 ettari che il Governo ha svenduto ad una impresa indiana per produrre canna da zucchero. Riunioni, confessioni, Eucaristia, battesimi, matrimoni. E poi con la gente a vedere i campi coltivati a granoturco, miglio, fagioli, patate, pomodori: dono di Dio e del lavoro di un popolo. Terra fertilissima bagnata da tre fiumi: Zambesi, Chire e Dzwe-Dzwe. Terra che è la vita di un popolo. In mezzo alla terra, i blocchi di cemento posti tre anni fa dall’impresa come segnali di demarcazione. I venticinque villaggi sono isole in mezzo a quello che ha le carte firmate per diventare il mare letale della canna da zucchero. Vita soffocata: minacciata, comincia ad ansimare.

Mattino di una domenica di settembre. Un’ora di macchina per fare venti chilometri tra buche, fossi e sentieri disegnati dalle ruote della bicicletta tra i campi coltivati. Poi la canoa per attraversare lo Dzwe-Dzwe. I bambini della comunità di Donça sono lì che aspettano sull’altra riva. Il canto e il battito delle mani a distanza diventano danza ed esplodono nel sorriso raggiante e nel vociare allegro a mano a mano che la canoa si avvicina. L’anno scorso, una mattina, la polizia è arrivata a Donça all’improvviso. Anche due anni fa era arrivata all’improvviso. Però, mentre due anni fa si era limitata ad intimare alle famiglie di lasciare terra e capanne, l’anno scorso è arrivata armata: ha picchiato gli uomini e ha distrutto qualche capanna. Nella vicina Panadza, la polizia ha anche abbattuto la chiesetta di mattoni in terracotta e paglia. E per indurre la gente a desistere, da cinque anni sono stati ritirati i professori. Niente scuola, niente posto di salute, niente strade: rimangono solo la gente e le capanne. Ostinatamente incollate alla loro terra benedetta.

Tutto è cominciato con l’ultima grande piena dello Zambesi e dello Chire che risale al 2008. Da generazioni la gente ha sempre convissuto con le piene: quando il livello delle acque si alzava, con la canoa si trasferiva rapidamente in aree sicure. Anche i coloni portoghesi, negli anni ’50, avevano costruito in queste zone villaggi con case, negozi e scuole. Oggi rimangono solo i ruderi: la guerra ha distrutto tutto. A partire dal 2008, la politica cambia. Il Governo impone alle centinaia di famiglie che vivono nella zona di confluenza dei due grandi fiumi di abbandonare la propria terra e le proprie abitazioni. Ai primi che obbediscono garantisce il materiale per costruire una casa in zone non soggette a piene. Materiale scadente e insufficiente: è quello che rimane delle migliaia di dollari di aiuti internazionali che non sono finiti nelle casse della Frelimo e nelle tasche dei suoi funzionari. Come mai all’improvviso tanta dedizione e interessamento per la vita di queste poche centinaia di famiglie di contadini? Ci sono forse altri interessi? In effetti pare che il progetto del Governo di vendere tutta l’area compresa tra la confluenza di Chire, Zambesi e Dzwe-Dzwe risalga proprio a 2008: la motivazione delle piene non sarebbe altro che una giustificazione pretestuosa ipocritamente ammantata da un falso intento benevolo. Così, con la scusa delle piene, intere famiglie vengono cacciate dalla propria terra, mentre la stessa terra è venduta al capitale straniero. Ci si arricchisce e si banchetta sulla terra e sulla vita dei poveri.

Pai Tomé, catechista della comunità Panadza, ha gli occhi lucidi e la voce intensa mentre afferma: «Qui sono vissuti i nostri antenati e qui vivranno i nostri figli. Non ce ne siamo andati dalla nostra terra durante la guerra, quando tutti fuggivano profughi in Malawi. Non ce ne siamo andati quando le piene hanno distrutto le nostre capanne e i nostri raccolti. Non ce siamo andati quando il Governo ci ha intimato di andarcene e ha mandato la polizia a picchiarci. Credi forse che ce andremo quando arriveranno quelli della canna da zucchero?».

Pai Tomé è uno dei venticinque rappresentanti della neonata Commissione di Giustizia e Pace. Dal 9 all’11 settembre abbiamo la nostra prima assemblea. Vengono tutti dalle comunità che sono all’interno dell’area di 36000 ettari interessata dal progetto dell’agrobusiness della canna da zucchero. Dalle comunità più distanti arrivano in bicicletta la sera prima. Il primo giorno iniziamo la preghiera con le parole arrese del profeta Abacuc che si rivolge a Dio esclamando: «Perché mi fai vedere l’ingiustizia e resti spettatore dell’oppressione?». Diciamo che noi - di fronte all’ingiustizia - siamo occhi, cuore, testa, bocca e mani di Dio. Ci lasciamo prendere per mano dalle parole di Gesù che ci rialza: «Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati». Pai Alberto, della Commissione diocesana di Giustizia e Pace di Beira, con alle spalle anni di esperienza di difesa della terra, ci aiuta a conoscere il ruolo della Commissione di Giustizia e Pace dentro la comunità cristiana e all’interno della società civile. Per difendere la propria terra è prima necessario conoscere i propri diritti: così studiamo gli articoli principali della “Legge della Terra”, già tradotta in Chisena da pai Alberto. Poco alla volta si prende coraggio, si vincono le proprie paure, il senso rassegnazione e di impotenza. Si prende atto che la Legge della Terra è stata violata almeno nella fase delle consultazioni pubbliche che, di fatto, non sono state realizzate. Si aprono gli occhi e le coscienze. Si delinea un cammino da percorrere assieme. Nel frattempo, ad agosto, a Beira, oltre agli esercizi spirituali e a cambiare le gomme della macchina, prendo contatti con la Liga dos Direitos Humanos. Cerco e trovo avvocati con competenza in materia di difesa della terra. Augurandomi che non sia necessario ricorrervi.

Conclusione: centrato sul centro del mondo.

Ci voleva il forno di Carlos e il pomeriggio in cui il sole voleva tramontare ad oriente per prendere atto che questo è il centro del mondo. O forse, più semplicemente, ci volevano due anni di Africa.

Uno di questi pomeriggi, davanti ad un altro tramonto, pensavo di nuovo ai centri del mondo. Mi chiedevo: «Quale sarà il centro del mondo di Dio?». Pensavo che Dio si è tanto centrato sull’umanità da farne il suo centro del mondo. Scentrato da Dio, si è centrato sull’umanità. L’ha messa tanto follemente al centro, al punto di farsi uomo in carne ed ossa. Piedi per camminare come i nostri. Mani per toccare come le nostre. Occhi per contemplare come i nostri. Testa per pensare come la nostra. Cuore per amare come il nostro.

Dio della vita che conosci tutti gli infiniti centri del mondo, tieni le tue mani centrate sulla mia testa affinché rimanga centrato sul centro del mondo in cui mi doni di vivere.

Infinitamente grato.

  • ANDREA FACCHETTI.


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