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UN ALTRO GENERE DI FORZA / LA FORZA E LA VIOLENZA DA UN PUNTO DI VISTA DI GENERE

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Un viaggio intrepido e rigoroso nella costellazione della forza, attento a non precipitare nell’abisso – che ne bordeggia ogni varco, ogni passaggio – del lato oscuro dei suoi astri: la violenza, la hybris della sopraffazione. Alessandra Chiricosta, filosofa, storica delle religioni, soprattutto attiva femminista, ci conduce nel suo ultimo importante libro, Un altro genere di forza, in un itinerario che si dipana da Simon Weil a Trin Thi Minh Ha, da Angela Putino a Donna Haraway. Un lavoro ricco e meticoloso che si muove, secondo una modalità che accoglie molto della proposta zoecentrica e nomadica di Rosi Braidotti, su terreni talvolta (apparentemente) lontani: la filosofia, le ideologie, le arti marziali, il mito, l’antropologia, la storia e le tradizioni culturali e religiose orientali e occidentali, fino ad arrivare alle trasformazioni e alle mutazioni prodotte e indotte dalla tecnica nei nuovi territori del postumano.

Uno dei punti di partenza dell’autrice è ciò che lei definisce “corpo-realtà”, “un corpo-mente intero, di una soggettività completa che [...] rifiuta di essere fatta a pezzi”, operazione necessaria a sanare quella che Chiricosta indica come la “ferita platonico e cartesiana”, nel tentativo di uscire da una concezione meramente strumentale del corpo, declinata nella divisione assoluta soggetto-oggetto, per aprirsi ad una prospettiva di interdipendenza e interconnessione tra l’Una(o) e l’Altra(o), cercando di decostruire la fissità del concetto di “Io”, e quello conseguente di “Tu” – come in maniera originale illustra il lavoro della vietnamita Minh Ha – laddove la relazione tra soggettività non solo le arricchisce e le nutre vicendevolmente ma ne modifica continuamente caratteristiche, coordinate e peculiarità in maniera tale da rinsecchire inevitabilmente ogni definizione di “identità” stabilite, circoscritte e concluse una volta per tutte.

Da quell’apparato concettuale Chiricosta intravvede l’origine del dispositivo di biopotere che ha successivamente articolato una gerarchia e uno stereotipo in base al genere – “uomo forte/donna debole” – utilizzando in maniera parziale, superficiale e distorta la cesura natura/cultura, fondando così le basi per l’ideologia patriarchista, uno dei principali bersagli del libro. Qui Chiricosta individua la necessità di indagare una storia e una narrazione occultata, mistificata e disconosciuta, laddove emerge “un altro genere di forza”, un’attitudine, un’espressione di sé, declinata al femminile, che non è affatto un semplice ribaltamento dei paradigmi patriarchisti. È una forza di altra natura, virescente e verdeggiante che mira ad “affermarsi ed espandersi a partire da sé e all’interno dei propri limiti” distinguendosi nettamente dalla violenza, definita invece come tensione che ha al suo stesso interno un ineliminabile carattere soggiogante e sopraffattorio.

L’autrice passa in rassegna, con interpretazioni di grande originalità e suggestione, molte storie e narrazioni, il mito delle Amazzoni, il rapporto tragico-amoroso tra Pentesilea ed Achille, la vicenda eneidica di Camilla, il terribile confronto tra Athena ed Arakne raccontato da Ovidio, fino ad esplorare i miti e le leggende più lontane, come quella messa all’origine di un’antica arte marziale, il taijiquan, che nasce dall’incontro di una giovane cinese, Yim Wing Chun, e una monaca buddhista, Ng Mui.

Un lavoro importante anche sul terreno della lingua – nonostante l’autrice ci metta in guardia anche dal linguaggio colonizzato dal logos androcentrico – che proprio su questo terreno suscita degli interrogativi. Chiricosta non parla mai di “nonviolenza” evoca, anzi, un atteggiamento “guerriero” come un percorso di liberazione individuale e collettivo. Dimensione che si può intendere sul piano delle pratiche formative ed espressive di un’arte marziale, già più difficile da immaginare sul piano simbolico, per il retaggio ultramillenario nell’uso di questa parola (l’origine di “guerra” è “mischia violenta”, nella quale prevale nettamente la hybris sopraffattoria da cui siamo partiti), completamente compromesso sul piano materiale. Ci domandiamo perché non abbia preso in considerazione la parola “lotta” – e i suoi derivati – che avrebbero aperto percorsi ed orizzonti di gran lunga più ampi e multiversi di quella rabbuiante espressione. Lotta e conflitto senza l’uso della violenza, proprio ciò di cui informa e pratica l’azione nonviolenta. Ma avremo modo di proseguire il confronto con questo serio e stimolante lavoro.



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