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TOBIA / LA MISSIONE NELLA DIASPORA

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Il libro di Tobia è un grazioso racconto didattico con epilogo felice. Tobi, un ebreo della tribù di Neftali, deportato in Assiria, vive a Ninive e, per la sua fedeltà alla legge di Dio, subisce varie prove, diventando infine cieco e povero.

Parallelamente Sara, una giovane ebrea, sua parente, residente a Ecbatana, vive il dramma dell’impossibilità di congiungersi a un uomo, poiché tormentata dal demone Asmodeo. Entrambi pregano il Signore e la loro preghiera è esaudita. Tobi si ricorda di un deposito di denaro lasciato a Rages nella Media presso un suo parente e decide di inviare suo figlio Tobia a prelevarlo.

Costui è accompagnato nel suo viaggio da una guida che alla fine rivelerà di essere l’angelo Raffaele: sarà lui a indicare a Tobia i rimedi per i mali che affliggono sia il padre sia la donna, che durante il viaggio il giovane sposerà. Alla fine sia la cecità di Tobi sia il demone che affligge la ragazza sono sconfitti.


La lingua originale di Tobia è dai più ritenuta l’aramaico e la composizione si fa risalire al III secolo a.C., specialmente perché nel racconto non ci sono riflessi della persecuzione subita nel II secolo a.C. dai giudei sotto i Seleucidi.

L’autore si rivela un ebreo devoto, ben versato nelle Scritture, da cui trae sia la fraseologia sia i motivi del suo racconto: il matrimonio di Tobia e Sara riecheggia quelli di Isacco e Rebecca (Gen 24) e di Giacobbe e Rachele (Gen 29); anche qui, come in Giobbe, Dio è coinvolto nella sofferenza che affligge i suoi servi; anche il Deuteronomio, con la sua insistenza sulla benedizione derivante dalla fedeltà al patto con Dio sta sullo sfondo del libro; non mancano infine riferimenti diretti e indiretti ai libri profetici.

L’ambientazione del racconto nella diaspora orientale fa propendere per una sua origine in tale contesto, il quale illumina anche sull’intenzione dell’autore: “egli proclama ripetutamente la signoria universale del Dio d’Israele e la sua presenza e attività anche tra i dispersi, nonostante le prove cui sono sottoposti. Esorta il suo popolo a preservare la propria identità nella diaspora.

La fonte di tale identità va ricercata nella famiglia, nel rispetto per i propri genitori e nella preservazione di una discendenza pura” (G.W.E. Nickelsburg). Nell’ambito della diaspora, infatti, dimostrò tutta la sua fecondità la prassi ebraica dell’educazione familiare, cioè l’attuazione di quel dovere di educare i figli sul quale il Pentateuco insiste (cfr. Dt 6,4-25).

IRREPRENSIBILE, EPPURE COLPITO DA SVENTURE

Tobi fu deportato a Ninive sotto il re assiro Salmanassar (Tb 1,1-2); egli, pur strappato dalla sua terra, si sforzò di camminare “nei sentieri della  verità e della giustizia ogni giorno della sua vita” (Tb 1,3).

Il resoconto autobiografico iniziale evidenzia il contrasto tra la condotta irreprensibile del protagonista e le sventure che lo colpiscono: l’esilio, la confisca dei beni, la perdita del posto di lavoro e infine la cecità, con la conseguente impossibilità di garantire il sostentamento alla propria famiglia (Tb 1-3).

Descrivendo la sua condotta in terra d’Israele e poi in esilio, Tobi riferisce da dove egli abbia attinto la propria formazione: “Infine davo la terza decima agli orfani, alle vedove e ai proseliti che si erano aggiunti agli israeliti. La portavo e la donavo a costoro ogni tre anni e ne mangiavamo seguendo le disposizioni stabilite nella legge di Mosè e seguendo le istruzioni di Debora, la madre di mio padre Tobiel; mio padre infatti era morto lasciandomi orfano” (Tb 1,8).

Mentre nel seguito sarà Tobi a istruire suo figlio, qui è una donna a svolgere tale compito, dato che il padre del protagonista era morto; questo implica che le donne avessero una certa competenza relativamente alla legge nel periodo del Secondo Tempio, come sembra attestare anche il libro di Proverbi (cfr. Pr 1,8; 6,20).

Nel libro non si fa mai cenno a un’istruzione ufficiale nella legge, così come non si riferisce di edifici o ambienti nei quali gli ebrei si ritrovino: l’unico ambito determinante è quello familiare, da intendere sia come famiglia mononucleare – è il caso della famiglia di Tobi a Ninive – sia come clan o famiglia allargata, come mostra la pronta solidarietà tra gli ebrei nel libro.

ISTRUISCE IL FIGLIO SULLA LEGGE DIVINA

L’intera vicenda si offre al lettore con una deliberata prospettiva: si racconta la storia di una coppia di sposi costretti a vivere fuori dalla terra nativa, una situazione per molti aspetti analoga a quella di Abramo e di sua moglie Sara.

Come Abramo, anche Tobi deve rimanere fedele alla volontà di Dio in una situazione in cui tutto sembrerebbe deporre contro tale scelta, poiché le promesse di Dio sembrano contraddette dagli eventi. Anche a Tobi, però, come ad Abramo, Dio si fa vicino, in modo imprevedibile, ma efficace. Si mette perciò in luce nel libro l’esperienza di quegli ebrei che devono affrontare una situazione nella quale le promesse divine contenute nei testi profetici sembrano smentite; a costoro si rivolge il libro per mostrare che la fedeltà a Dio preserva anzitutto la propria nazione e poi apre al futuro.

Ecco perché fino all’ultimo Tobi si preoccupa che suo figlio sia istruito, dando attuazione a quanto richiedeva Mosè nel Deuteronomio (cfr. 4,9; 6,7. 20-25; 32,7.46); il libro ci fornisce due esempi di tale insegnamento paterno (cfr. 4,5-19; 14,3-11), in cui si insiste sul dovere di corrispondere alla volontà di Dio espressa nei suoi comandamenti, ma è l’intero libro che va colto come fonte di istruzione.

SENZA PREOCCUPARSI DI FARE PROSELITI

Nella diaspora l'insegnamento paterno pone al primo posto la pratica delle opere di misericordia (4,5-11), la fedeltà alle leggi dietetiche (1,10) e al matrimonio endogamico (1,9: addirittura ristretto alla stessa famiglia, cioè il clan), che sono nel libro i tratti distintivi della vita dell’ebreo in un mondo pagano (cfr. 1,10-22), mentre allorché egli viveva nella Madrepatria ciò che distingueva la sua condotta era la fedeltà al tempio di Gerusalemme (1,4-9).

Nessuna preoccupazione di fare proseliti: al centro sta la vita vissuta alla luce della relazione con Dio che si esprime nella solidarietà e nella collaborazione con le persone che ogni giorni condividono il cammino dell'esistenza.

MATURANDO NELLA FEDELTÀ A DIO

In tal modo il libro si presenta come guida alla vita dell’ebreo in un contesto in cui la sua identità religiosa ed etnica è minacciata, e il riferimento agli antenati d’Israele (Abramo, Isacco, Giacobbe e le loro mogli) non è solo una pura reminiscenza storica, bensì un preciso riferimento ideale, nel quale si coglie che la vita nella diaspora non è solo un castigo per i peccati, ma anche tempo in cui Dio offre al popolo l’opportunità di convertirsi per sperimentare di nuovo la sua misericordia (Tb 13,3-7):

nella diaspora si vive come Abramo il tempo della prova, finché Dio realizzerà la sua promessa;

come per Isacco e Rebecca, il matrimonio e la famiglia rappresentano il contesto entro il quale preservare la propria identità etnica e culturale; come Giacobbe, anche l’ebreo della diaspora deve affrontare il lungo viaggio che lo fa maturare nella fedeltà al Dio di suo padre, consapevole che egli vive in un mondo pieno di ingiustizia, a motivo della quale deve sempre essere pronto – come Lot – a recidere ogni legame, come ingiunge Tobi morente a suo figlio: “Infine, figlio mio, vattene da Ninive e non rimanere qui! Lo stesso giorno in cui seppellirai tua madre accanto a me, non passerai quella notte entro i confini della città:

vedo infatti proliferare in essa molta malvagità e molta disonestà, senza alcun pudore” (Tb 14,9-10).

COME IL CRISTIANO NELLE SOCIETÀ ODIERNE

Anche il cristiano vive nelle società odierne l'esperienza della diaspora; anch'egli è chiamato a trasmettere alle generazioni la speranza che il dono della fede ha infuso in lui.

Per realizzare questo può fare tesoro di quanto scriveva l'apostolo Pietro, il quale rivolgeva il suo invito ai credenti a considerarsi stranieri e pellegrini e a vivere questa condizione nel timore di Dio (1Pt 1,17), ma soprattutto offrendo la testimonianza di un amore vicendevole (1Pt 1,22) e di una condotta esemplare, affinché coloro che

“vi calunniano come malfattori, al vedere le vostre buone opere diano gloria a Dio nel giorno della sua visita” (1Pt 2,12).



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