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SE CHIUDIAMO I PORTI SIAMO DISPERATI

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Nel suo Discorso alla città, il 15 luglio scorso, sfruttando l’immagine del vascello che porta la patrona Santa Rosalia per le strade del capoluogo siciliano, il vescovo Corrado Lorefice ha descritto la navigazione difficile di tre “navi”: la città di Palermo, l’Italia e l’Europa. L’Italia, secondo Lorefice, è come una nave sbattuta dalle onde alte della paura e della povertà, che alimentano nei naviganti la pericolosa illusione di poterle cavalcare con “la chiusura, lo stare serrati, la contrapposizione all’altro”. In verità, piaccia o meno, il fenomeno della globalizzazione, contro le sue stesse intenzioni, ha ormai reso inesorabilmente futile ogni esercizio di chiusura e di contrapposizione. L’umanità, ha proseguito il vescovo, è diventata una realtà sola, una totalità, come una famiglia, “in cui il destino di uno, di un gruppo, di un popolo, condiziona la vita e il destino di tutti”. E chi di noi, si è chiesto Lorefice, “vorrebbe star bene dentro la sua famiglia al prezzo del disagio degli altri suoi familiari? Quale madre, quale padre potrebbe sentirsi felice, sereno, se gli altri membri della famiglia soffrono e vivono nell’indigenza! La felicità costruita e mantenuta sull’infelicità degli altri è perversa e menzognera, pronta in breve a rivelarsi tale”.

L’Europa, d’accordo con il vescovo di Palermo, “è la nave che tutti ci comprende in virtù di una geniale intuizione dei nostri padri”. Per cui la logica del “prima noi” non ha futuro, è miope e destinata al fallimento: “Rischiamo fratture insanabili proprio perché ogni paese europeo comincia a ritenere che il suo benessere venga prima, senza capire che se la casa comune si distrugge tutti resteremo all’addiaccio, privi di un tetto. È la miopia dell’egoismo politico, propugnato da governanti e da politici europei che spesso si vantano – soprattutto nell’Est – di costruire regimi privi delle garanzie e fuori dai confini minimi della democrazia”. Di fronte a quest’Europa, ha ribadito Lorefice, “la Chiesa non può restare in silenzio”, non ha alternative, proprio perché “è stata collocata dal suo Signore accanto ai poveri e ai derelitti della storia, e tutte le volte che è uscita – e quante volte è successo – da quel posto per mettersi accanto ai forti, ai ricchi, ai potenti, ha perso il senso stesso del suo essere”.

In questi tempi incerti e strani, a 80 anni dalle Leggi razziali in Italia (1938) e a 70 dalla Dichiarazione universale dei diritti umani (1948), di fronte ai presagi funesti sui destini dell’Europa, prossima a disintegrarsi sugli scogli degli egoismi regionali, dei razzismi xenofobi, delle chiusure e degli arroccamenti nazionali, il vescovo di Palermo ha dichiarato, evocando la figura di Giorgio La Pira, nato in uno dei porti (Pozzallo) verso cui si dirigono oggi “le attese della povera gente” dell’Africa: “Se fermiamo le navi dei poveri, se chiudiamo i porti, siamo dei disperati. Disperiamo della nostra umanità, disperiamo della nostra voglia di vivere, del nostro desiderio di comunione”.

Una sfida da raccogliere, non solo da parte delle Chiese del vecchio continente, ma anche dei politici italiani ed europei, affinché alzino la testa dal loro ottuso sovranismo e si rimbocchino le maniche, non solo per salvare vite umane che altrimenti rischiano di essere cancellate, ma anche per salvare quel che resta della nostra umanità italiana ed europea. Siamo preoccupati per il clima di odio e di disprezzo che viene continuamente alimentato nella nostra società. Davvero l’umanità si è degradata a tal punto? Davvero il sentimento oggi prevalente è l’indifferenza verso la sorte degli altri esseri umani? Se chiudiamo i porti, non siamo più umani, siamo disperati.



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