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Sapienza: Missione, Critica della religione idolatrica

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Come altri testi giudaici, anche il libro della Sapienza dedica una lunga digressione alla critica alle religioni pagane. Alla luce degli inviti che il Concilio Vaticano II ha rivolto in vista di un dialogo con le altre religioni, questi testi ci appaiono come il riflesso di una mentalità superata; nello stesso tempo, essi sono un documento eccezionale, perché ci presentano il punto di vista di una cultura e di una religione minoritaria dentro un contesto in cui espressioni religiose e opzioni ideologiche rischiavano di far perdere a coloro che avevano accolto la rivelazione del Dio di Abramo la propria identità e soprattutto i valori che la relazione con tale Dio insegnava a riconoscere e a testimoniare.

La trattazione dei capitoli 13-15 si articola in tre momenti, che corrispondono a tre tipi di religione: la religione dei filosofi (13,1-9), l’idolatria (13,10-15,13) e la zoolatria (15,14-19).


LA CRITICA DELLA RELIGIONE DEI FILOSOFI

L’esposizione comincia dalle forme più elevate del culto pagano: la divinizzazione degli elementi cosmici e il culto degli astri (13,1-9). Il Dio, che si è rivelato al roveto ardente (cfr. Es 3,14), è il medesimo che si offre alla conoscenza di ogni essere umano tramite il creato. Di conseguenza i pagani, non avendo riconosciuto l’artefice del cosmo, hanno pure mancato l’incontro con il Dio di Abramo. La critica si concentra in primo luogo sui saggi filosofi del tempo:

Davvero vani per natura tutti gli uomini che vivevano nell’ignoranza di Dio, e dai beni visibili non furono capaci di riconoscere colui che è, né, esaminandone le opere, riconobbero l’artefice (Sap 13,1).

Questo suppone che la via scelta dai pagani per arrivare alla divinità, cioè la contemplazione delle realtà visibili, fosse giusta; se non giunsero alla conoscenza del vero Dio è perché non furono coerenti con la via intrapresa (13,2-5). L’ignoranza rimproverata ai filosofi non è semplicemente di ordine intellettuale, bensì esistenziale, come mostra 14,22 (“Inoltre non fu loro sufficiente errare nella conoscenza di Dio, ma, vivendo nella grande guerra dell’ignoranza, a mali tanto grandi danno il nome di pace”); quando l’impegno morale ed esistenziale è escluso dal processo di ricerca e di conoscenza di Dio quest’ultimo è destinato a fallire.

LA CRITICA DELL’IDOLATRIA

Un duro giudizio apre l’intera unità sull’idolatria:

Infelici anche coloro le cui speranze sono in cose morte e che chiamarono dèi le opere di mani d’uomo, oro e argento, lavorati con arte, e immagini di animali, oppure una pietra inutile, opera di mano antica (Sap 13,10).

Segue la presentazione di un taglialegna e del suo idolo di legno (13,11-19), scena ispirata da Is 44,9- 20. Le “cose morte” del v. 10 sono richiamate nel v. 18, motivando l’infelicità di questi idolatri: “per la sua vita prega una cosa morta, per un aiuto supplica un essere inetto, per il suo viaggio uno che non può usare i suoi piedi”. Si passa poi a presentare il marinaio che implora l’idolo protettore della sua nave (14,1-10); ciò consente di approfondire la riflessione affrontando il tema della provvidenza divina, tramite riferimenti alla storia biblica. Il passaggio del Mar Rosso è la grandiosa prova della provvidenza divina: tracciando per il suo popolo una strada sicura in mezzo al mare, Dio dimostra la sua assoluta signoria sulle acque (14,3b-4a). Noè è presentato come il primo navigatore, nel quale risalta in modo particolare l’assistenza provvidenziale di Dio (14,6): soltanto il patriarca infatti scampò al diluvio, ma in Noè affidato a una fragile zattera è sopravvissuta l’intera umanità. In 14,11-31 l’autore risale all’origine dell’idolatria, vedendovi una sorte di peccato originale che pesa sull’umanità, le cui terribili conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Un’ampia introduzione (14,11-14) preannuncia il castigo divino a causa degli idoli, adducendo due motivazioni: l’invenzione umana degli idoli e le conseguenti deviazioni morali, due temi illustrati nel seguito. L’autore considera le immagini un fattore determinante del processo di divinizzazione (14,16-21). Qui egli polemizza pure contro l’arte greca, la cui seduzione poteva esercitare un forte fascino sugli ambienti ebraici, in particolare su quelli della diaspora. Egli vede nelle immagini un’insidia per l’esistenza, perché portano ad “attribuire” il nome incomunicabile a pietre e legni (14,21). Con “nome incomunicabile” s’intende verosimilmente il nome divino rivelato a Mosè (Es 3,14) che l’essere umano non può pronunciare. Passando poi alle conseguenze morali dell’idolatria, si enumera un catalogo di vizi (14,22-26), il cui elemento organizzatore è dato dal numero 22, quello delle lettere dell’alfabeto ebraico, e che richiama l’idea di totalità; ma si tratta di una totalità negativa. L’elenco di vizi si ispira in parte al Decalogo, forse attraverso la rilettura di Os 4,2, e in parte ai cataloghi degli scritti filosofici greci, in cui si enumerano i vizi della società antica. Decisamente in contrasto con quanto precede è il passo seguente:

Ma tu, nostro Dio, sei buono e veritiero, sei paziente e tutto governi secondo misericordia. Anche se pecchiamo, siamo tuoi, perché conosciamo la tua potenza; ma non peccheremo più, perché sappiamo di appartenerti. Conoscerti, infatti, è giustizia perfetta, conoscere la tua potenza è radice d’immortalità. Non ci indusse in errore né l’invenzione umana di un’arte perversa, né il lavoro infruttuoso di coloro che disegnano ombre, immagini imbrattate di vari colori, la cui vista negli stolti provoca il desiderio, l’anelito per una forma inanimata di un’immagine morta. Amanti di cose cattive e degni di simili speranze sono coloro che fanno, desiderano e venerano gli idoli (Sap 15,1-6).

Ispirandosi alla descrizione di Es 34,6 l’autore evoca i tratti salienti del Dio dell’alleanza (15,1), quale Dio vivo e personale, contrapposto agli idoli impotenti e senza vita dei pagani; egli si sente orgoglioso di far parte del popolo che si distingue dagli altri per la fede nel Dio unico e vero. Nonostante la seduzione, Israele ha resistito all’idolatria (15,4): evidentemente qui il riferimento non è all’Israele storico, che spesso condivise le aberrazioni dei popoli pagani, bensì a quell’Israele ideale, quel piccolo resto che durante i secoli rimase fedele a Dio. In 15,7-13 si critica il vasaio che dall’argilla trae raffigurazioni di divinità: costui appare come un cinico avido di denaro e consapevole del proprio peccato. Sullo sfondo di tutta la descrizione si intravede la figura del Creatore, l’unico capace di dare all’argilla un alito di vita. Alla sua luce appare davvero ridicolo il gesto del vasaio idolatra. Riprendendo Is 44,20 (LXX), l’autore qualifica il cuore di questo vasaio: “Cenere è il suo cuore, e più vile della terra la sua speranza” (15,10); essendo tutta la sua attività assorbita da un progetto radicalmente inconsistente come quello di fabbricare idoli, essa è, come la cenere, una realtà interamente consumata e non serve più a nulla.

LA CRITICA DELLA ZOOLATRIA

In 15,14-19 si giunge al culmine della riflessione sull’idolatria, denunciandone la forma peggiore, la zoolatria. Responsabile non è più il generico mondo pagano, ma un popolo preciso: gli egiziani. È nota la presenza del culto di animali vivi nella religione egiziana: ciò costituì non solo oggetto di meraviglia, ma anche di condanna da parte di diversi autori greci e romani. Il nostro autore nella sua denuncia mostra tutta l’irrazionalità di un simile culto: non si tratta solo di animali ripugnanti, ma anche di animali più stupidi di tutti gli altri; in essi è scomparsa perfino quella lode e quella benedizione che Dio aveva impartito a tutti gli animali al momento della creazione (Gen 1,21-22.25). Queste pagine non vanno lette solo come una denuncia: al centro sta il rispetto della realtà di Dio che non può mai essere degradata a livello della creatura e, nello stesso tempo, il rispetto per ogni essere umano che non si lascia asservire dal creato, ma, affidandosi al Signore del creato, assume il compito di guidarlo con giustizia e sapienza. Chi scrive non intende proporsi come giudice dei comportamenti religiosi altrui, ma soprattutto come testimone del dono ricevuto dal Dio vivente: la sua Parola che crea e libera.



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