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Salmo 8: La Missione come attesa di Dio

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ll Salmo 8 riflette la prospettiva del credente, il quale non ri-cerca nella realtà solo una se-rie di leggi o strutture, ma intesse un dialogo con Dio. Il credente è convinto che a fondamento di questa realtà stia una volontà personale e che con essa si possa intessere un dialogo, cosicché essa possa rispondere alle nostre do-mande. Per il credente il senso non è dato da una ricerca che sco-pre ciò che è nascosto nelle pieghe della realtà, ma dall’accoglienza della relazione con Colui che sta a fondamento della realtà stessa.

Questo non è, però, il nostro percorso abituale. Ci sono anche oggi poeti, vi sono uomini e donne religiosi, ma gran parte del linguag-gio che noi utilizziamo per spie-gare il mondo è di tipo scientifico. Né va dimenticato che la differenza tra il linguaggio scientifico e quello del salmo è che quest’ultimo parte dallo stupore, dalla meraviglia, mentre la scienza parte dal bisogno di sapere e di rendere ragione dei fenomeni. Chi prega nel salmo non interroga la realtà, ma presenta a Dio il suo interrogativo (che cos’è un essere umano perché te ne ricordi, e ogni singola persona perché te ne cu-ri?).

E la domanda si potrebbe ribaltare: c’è davvero Qualcuno che ha cura degli esseri umani?

CONTEMPLATO COME AMBIENTE DIVINO

La prospettiva scientifica indaga su come è fatto il mondo e scopre che esso è determinato da leggi: si tratta di leggi fisiche o biologiche che un’attenta osservazione illustra e spiega. La ricerca scientifica non si interroga tanto sul posto dell’es-sere umano nel mondo, ma su co­me funzioni il mondo e su che cosa effettivamente abbia determinato e determini il suo attuale funzionamento. Di fatto la scienza si applica a ripercorrere i vari stadi che hanno portato il mondo a essere così com’è, nonché l’evoluzione che ha portato l’essere umano alla sua condizione attuale. A partire dalla scienza questo è possibile, ma nello stesso tempo a partire dalla scienza sarebbe illusorio credere di poter dare risposta alla domanda posta dall’orante del salmo, perché di fat-to la scienza non intende porsi co­me ricerca del significato della vita umana.

Noi viviamo oggi in uno spazio umanizzato, in cui tutto, o quasi, quel che si vede è trasformato da-gli umani tanto che il territorio e il paesaggio cambiano dove arriva l’umanità: fiumi spostati, montagne eliminate. Anche gli antichi operavano tali cose, ma l’essere umano davanti al mondo aveva un evidente senso di timore, dato che molte culture antiche concepivano l’universo come una realtà piena di vita: dai fiumi, alle montagne, al sole, alla luna. Non pensavano al dio del tuono, della tem-pesta, della montagna, come diremmo noi, bensì il tuono, la tem-pesta, la montagna avevano carattere divino. Perciò la domanda che si facevano gli antichi non era: come funziona il mondo, ma come posso inserirmi in maniera positiva in questo mondo?

È possibile realizzare la propria vita dentro questo mondo che presenta problemi spesso insolubili?

AL CENTRO L’ESSERE UMANO

Il salmo passa dall’osservazione del cielo notturno alla considerazione del suolo terrestre e pone al centro l’essere umano, che è strettamente congiunto alla terra: que-sta è il suo dominio. Se l’osservazione del cielo porta l’essere umano a interrogarsi sul proprio valore, il rimando all’opera di Dio nei suoi confronti (vv. 6-7) gli permette di trovare il suo posto nel mondo, in questo mondo: qui egli esercita il suo potere, che non è né universale (nell’universo esiste ciò che sfugge al suo potere, il cielo), né assoluto (gli è stato concesso), come afferma Sal 115,17: “I cieli sono i cieli del Signore, ma ha dato la terra agli esseri umani”.

Qual è dunque la funzione della contemplazione del cielo? Il cielo è ciò che sta in alto, il lon-tano, eppure tanto vicino, poiché da là (per l’uomo biblico) viene la possibilità della vita: esso determina i ritmi della vita umana; dal cielo sgorga la possibilità di ren-dere feconda la terra con la pioggia; di là discende Dio (cf. Gen 11). Il firmamento è una volta, è un ambito solido che può contrastare i nemici di Dio (v. 3): contrapposto alla loro tracotanza sta il baluardo posto da Dio, come limite alle loro pretese di sopraffazione. Il cielo è infine irraggiungibile e appunto la sua inaccessibilità fa sorgere nell’essere umano la domanda del v. 5: questo non poter abbracciare l’universo significa per l’umano un’assenza di significato, significa che egli ha un posto secondario nel progetto creativo divino?

COME BAMBINO IN ATTESA DI DIO

Posando lo sguardo sugli umani, l’orante mette in luce anzitutto la loro precarietà: l’essere umano non è Dio e, pur se è “poco meno di Dio”, la distanza tra lui e il Creatore non può essere colmata, cioè egli rimane “figlio di Adamo” non “figlio di Dio”. Il significato della sua esistenza si ricava invece dalla riflessione su quanto Dio ha operato creandolo e sul compito che gli ha assegnato.

Se lo sguardo al cielo definisce il suo limite, lo sguardo all’agire originario di Dio nei suoi confronti (v. 6) fonda la sua gloria e dignità: esiste un ambito in cui l’umano si vede posto in posizione elevata ed è appunto quella terra da cui è stato tratto, quella zona dell’universo che sta alla sua origine, che rimane l’ambito in cui attuare la propria esistenza, con la quale ha un legame “originario” e perciò costitutivo del suo essere. In questo si manifesta la sua gloria e dignità: in un certo senso l’umano è partecipe della maestà divina sul cosmo, allorché svolge il suo compito nell’ambito a lui è affida-to, cioè la terra.

Il Salmo 8 si presenta come “inno”: una lode che un umano innalza al Dio creatore e Signore dell’universo. Punto di partenza è la condizione più debole e indifesa degli umani: “bambini e lattanti”. L’orante riesce a far parlare l’universo e vede in esso un incessante canto di lode alla maestà del Creatore, proclamato da chi è più piccolo, debole, indifeso. La contrapposizione iniziale non è, tuttavia, tra la maestà divina e i bambini, ma tra questi e un’altra categoria di umani: gli avversari di Dio. Il bambino rappresenta il simbolo dell’essere ancora in attesa, capace di stupirsi, che attende di vivere, di saper vivere, di gustare la vita; che attende da “altri” o da un “Altro”.

Gli avversari non attendono più: pretendono, aspirano, bramano. Dal bambino si passa poi al “ca­po”: quel bambino un giorno di-venterà capo. È appunto questo passaggio che deve diventare em-blematico per il cammino di ogni essere umano: la dimenticanza della lode è la dimenticanza della condizione del “bambino”, del fatto che vita, potere, futuro hanno un’origine, la quale non è fondata sulle capacità umane, ma sull’agire di Dio, che mostra a ogni essere umano che non è lasciato in balia di un universo infinito (e talvolta ostile, cfr. Giobbe), perché “Dio si prende cura di lui”.



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