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Salmo 130: Missione come sentinella d'Europa

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Il Sal 130, così come il Sal 51, afferma che vero nemico dell’orante non è una malattia, una persecuzione o un avversario umano. Il vero nemico dell’orante è il peccato, la tragedia che solo l’amore misericordioso di Dio può allontanare dal mortale. Mentre, però, il Sal 51 pone l’accento sul peccato, scavando nel segreto oscuro della coscienza che si scopre colpevole, il Sal 130 si concentra sulla misericordia di Dio e sul suo perdono.


DE PROFUNDIS, UN GRIDO A DIO

Dio è invocato “dal profondo” (ma’amaqim): l’essere umano è sempre troppo piccolo nei confronti di Dio, eppure può scendere ancora più in basso. Come chi muore e scende nella fossa, così il peccatore si sente ormai in un baratro dal quale sembra impossibile far udire il proprio grido d’invocazione a Dio. Nel nostro salmo questo abisso è chiaramente collegato all’iniquità: “La condizione tragica dell’uomo è quella situazione, complessa e sfaccettata, creata dall’iniquità presente nella vita di individui, comunità e società. Non si tratta soltanto di colpa: è il torrente del male e delle sue conseguenze che trascina via la vita con acque turbolente e travolgenti che non lasciano scampo” (James L. Mays).

IL SUO AMORE SPROFONDA NELL’INFERNO

La tradizione ebraica ha collegato l’espressione con cui si apre il salmo a una frase del Cantico: “Io sono il narciso del Sharon, il giglio delle valli (amaqim)” (Ct 2,1) e ha così commentato: “Rabbi Abba bar Kahana dice: L’assemblea d’Israele ha detto: È quando sono sprofondata nelle valli dell’angoscia che io sono amata; e quando il Santo – sia benedetto – mi trae fuori da queste angosce faccio colare delle buone azioni, come il giglio fa colare la rugiada. Ma i nostri maestri dicono: L’assemblea d’Israele ha detto: È quando sono sprofondata nelle profondità dell’inferno che io sono amata; e quando il Santo – sia benedetto – mi strappa da queste profondità, faccio colare delle buone azioni e intono un canto per lui” (Cantico Rabbà). Chi è innocente può stare ritto in piedi nel giudizio (v. 3), ma chi è nel peccato non può ergersi con sicurezza davanti a Dio, anzi il peccato porta a nascondersi, come Adamo all’udire i passi di Dio nel giardino.

COME NELL’ESODO DALL’EGITTO

A invocare non è tuttavia un essere angosciato: non si tratta del senso di colpa che rende incapaci di valutare se stessi e i propri interlocutori; il peccato mette, invece, a nudo l’incapacità umana di assumere responsabilmente il proprio compito davanti a Dio. Di fronte all’orante sta, però, il Signore che non vuole la morte del peccatore: a lui offre il suo perdono (v. 4) in vista di una vita rinnovata al servizio di Dio (“affinché tu sia temuto”, così alla lettera va intesa l’affermazione). Meditando la parola del Signore (v. 5), l’orante passa dalla consapevolezza della colpa all’attesa: Dio ha come qualità essenziale la misericordia/benevolenza (v. 7: hesed); egli agisce per strappare dalla schiavitù – in questo caso quella del peccato – chi confida in lui (il “riscatto/redenzione”, vv. 7- 8).

Il Dio che riscatta è il Dio dell’esodo, il quale è in grado di trasformare una massa di schiavi in un popolo santo e libero.

Il baratro in cui il peccato può sprofondare un essere umano è una schiavitù analoga a quella egiziana – come ha ben visto l’apostolo Paolo nella lettera ai Romani (c. 7) – al punto da non saper più vedere vie di scampo.

SULLA RIVA DEL MARE

L’orante invece, illuminato dalla parola del Signore, comprende la lezione che l’esodo ha voluto impartire: come Mosè, sulla riva del mare ha invitato il suo popolo “a non temere e rimanere pronti” (Es 14,13), in attesa della liberazione che il Signore avrebbe apportato, così l’orante si dispone come una sentinella ad attendere il mattino (il tempo in cui celebravano i processi), quando il giudice divino pronuncerà nei suoi confronti non un verdetto di condanna, ma la parola che salva. È la speranza dunque la prospettiva che caratterizza l’orante del salmo e ciò aiuta a comprendere come mai la liturgia cristiana ne faccia grande uso nelle preghiere per i defunti: il giudice divino è benevolenza e redenzione e neppure l’abisso della morte può separare il suo fedele da lui.

LA MISSIONE DELLA COMUNITÀ DEL DIO VIVENTE

Questa lettura centrata sul singolo, rischia però di farci dimenticare che a pronunciare questa e le altre suppliche del Salterio è un’intera comunità. Una comunità che ha incontrato il Dio vivente al Sinai, che ha sperimentato la sua protezione nel cammino del deserto, che ha vissuto secoli d’infedeltà durante la monarchia e che ha visto svanire la propria indipendenza politica fino a diventare una minuscola provincia alle propaggini di un grande impero. I profeti hanno accompagnato il cammino del popolo, mostrandogli quali scelte dovevano essere fatte affinché la sicurezza e la pace fossero garantite: esercizio della giustizia, solidarietà verso i poveri e gli oppressi, fedeltà agli impegni assunti nei confronti del proprio Dio. Molti passi profetici minacciavano al popolo sciagure e tragedie; nonostante questo né i capi politici né le guide religiose hanno saputo favorire le scelte positive del popolo e il baratro si è aperto.

COME SENTINELLA CHE ATTENDE L’AURORA

Storia di un popolo, ma anche di un’umanità che fatica a trovare percorsi che aprano alla speranza, perché ci si ostina a ritenersi autosufficienti, a mettere al centro della costruzione della società progetti che favoriscono solo una porzione della creazione, fosse anche la sola creatura umana. Il mondo non è creato esclusivamente in funzione dell’essere umano e quando l’umanità lo riduce a riserva per sfamare le sue brame gli si ritorce contro, come mostrano i tanti squilibri ecologici attuali; la società non è campo di battaglia tra interessi particolari, ma rete di relazioni da costruire e da far maturare, affinché anche chi è svantaggiato trovi in essa accoglienza e dignità.

La storia narrata nella Bibbia non è solo ricordo del passato: è anche monito e lezione.

E invita a sollevare lo sguardo verso Colui che non dimentica le sue creature, come efficacemente sottolinea Osea: “Come potrei abbandonarti, Efraim, come consegnarti ad altri, Israele? Come potrei trattarti al pari di Adma, ridurti allo stato di Seboìm? Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione” (Os 11,8).

DI UN’UMANITÀ RICONCILIATA

Perciò il cristiano che prega il salmo non può disgiungere questi due livelli, se non vuole ridurre la propria esperienza religiosa a strategia di sopravvivenza o addirittura a percorso di autoaffermazione. Il cristiano è la sentinella che attende l’aurora perché ha sperimentato che la bontà di Dio non si smentisce: Egli nel suo Figlio ci ha mostrato il suo volto misericordioso.

E il cristiano vive ora l’esperienza ecclesiale in sintonia con quell’Israele che non intende conquistare il mondo, ma che contribuisce a seminarvi quei germi di speranza che solo un’umanità riconciliata tra i suoi membri e con il creato apre a quel futuro che il Dio compassionevole indica come superamento di ogni ingiustizia e oppressione, quando “Egli sarà giudice fra le genti e arbitro fra molti popoli. Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerra” (Is 2,4).



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