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Myanmar: la nonviolenza non è tollerata

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La partecipazione in prima linea dei monaci in rosso alle manifestazioni di settembre contro la dittatura militare in Myanmar, è stato elemento determinante di una protesta repressa nel sangue, le ha dato forza, l'ha legittimata. Ha fatto comprendere al mondo, ma anche agli stessi generali birmani, che la comunità monastica, che il governo da decenni tende a contenere in istituzioni ufficiali che rappresentano solo se stesse, resta un interlocutore indispensabile per il suo popolo e per chiunque si arroghi il diritto di governarlo privandolo dei più elementari diritti umani in cambio di povertà, frustrazione, svendita delle risorse.

Iniziative che vanno sempre e solo a beneficio dei militari al potere dal 1962. Un parallelo immediato è con il 1988. Anche allora monaci a fianco degli studenti a gridare slogan, svolgere striscioni e morire nelle retate notturne o nelle aule trasformate in luogo di tortura. Un rapporto stretto tra popolazione e clero buddista, che è storico ma che si è sempre rinnovato nei momenti di crisi. Il buddismo in Myanmar è identificato con l'istituzione monastica ed essa si pone storicamente a tutela dell'identità nazionale minacciata.

Un'identità che la giunta militare non è legittimata a rappresentare perché basa il proprio potere non sulla compassione, ma sull'arbitrio e sulla violenza.

Ma forse anche la protesta dell'88 nell'ex Birmania non veniva dal nulla, ma aveva come esempio la fine della dittatura nelle Filippine, frutto della prima rivoluzione pacifica - e vincente - del continente, che ebbe non a caso al centro la partecipazione della Chiesa filippina e la guida carismatica del cardinale Jaime Sin. Nel febbraio 1986 centinaia di migliaia di persone marciarono a Manila sui palazzi del potere e verso gli acquartieramenti militari sotto la legge marziale. 

L'ultimo drammatico braccio di ferro davanti ai cannoni puntati alzo zero sulla folla in preghiera e che offriva fiori ai soldati, si giocò sulla sottile linea della coscienza cristiana di questo paese e sulla necessità di chiudere con la crudeltà del dittatore Ferdinand Marcos e le bizzarrie della moglie Imelda con il saccheggio del Paese da parte di una ristretta oligarchia legata a interessi stranieri.

Anche il cambio della guardia in Indonesia, la caduta del presidente Suharto nel 1998 e la nascita di una nuova Indonesia, dalla democrazia ancora vacillante ma sempre più ferma, ebbe alle spalle movimenti e associazioni come Nahdlatul ulama e Muhammadiya, custodi allo stesso tempo dell'orgoglio islamico del maggior Paese musulmano al mondo, ma anche della sua tradizione di convivenza tra fedi e culture.

Una tradizione rilanciata all'indipendenza dall'ideologia di Stato, Pancasila, che propugna l'armonia nella diversità. Buoni propositi che non hanno potuto evitare nel tempo discriminazioni e particolarismi. Come nell'ex provincia orientale di Timor Est, devastata per 25 anni dalla repressione, il cui riscatto culminato con l'indipendenza del 2002, ha avuto inevitabilmente al centro il sangue di 200mila timoresi e l'identità cattolica.

La storia, maestra, ci insegna che in Myanmar, presto o tardi, la nonviolenza avrà ragione della tirannia. Sono i due binari che portano alla democrazia: la nonviolenza e la partecipazione alla vita sociale.



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