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MONACI ALLA ROVESCIA IN CERCA DI SPAZI DI SALVEZZA

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Su Il Fatto quotidiano del 30 ottobre 2017, lo psicanalista Luigi Zoja, sotto il titolo Il desiderio di ritirarsi dal mondo: la nuova peste del XXI secolo, recensendo il libro di un suo collega (V. Lingiardi, Mindscapes. Psiche nel paesaggio, Raffaello Cortina 2017), richiamava la cosiddetta “sindrome del ritiro”, ossia quella vera e propria psicopatologia, sempre più diffusa, che consiste nella “chiusura al mondo che, anche in senso letterale, travolge gli elementi più insicuri delle giovani generazio­ni”.

Mi è tornato tra le mani un po’ accidentalmente l’articolo di Zoja men­tre – per via di qualche strascico del mio antico “mestiere” di professore – leggevo una tesi sul tema della “stranierità”, la xeniteia dei monaci antichi, che si proponeva di realizzare come ideale spirituale, nella nuova condizione di Chiesa uscita dalle persecuzioni e diventata Chiesa di massa, la figura dei cristiani quali “stranieri e pellegrini”, già indicata in alcuni testi del Nuovo Testamento (cfr. 1Pt 2, 11).

Mi chiedo quale rapporto possa esserci tra il monaco che fuggiva dal mondo (l’anachoresis indica precisamente questo “ritirarsi”) rinchiuden­dosi nella sua cella, in un’esperienza certamente molto pregnante anche sotto il profilo psichico (e al tempo stesso, secondo la percezione antica, in realissima battaglia con le tante forme del demoniaco), e questa nuova “sindrome del ritiro”: qui la “cella” sembra virtualmente aperta su tutto, perché ha le dimensioni pressoché infinite rese possibili dalle “na­vigazioni” tecnologicamente assistite; essa, però, non è meno fisicamente limitata; soprattutto, come nota ancora Zoja, costituisce “lo stadio finale dello storico ‘ritiro delle proiezioni psichiche’ dall’ambiente circostante”.

La “sindrome del ritiro”, in altre parole, porta alle conseguenze terminali un processo che ha progressivamente staccato il soggetto dalla sua relazione costitutiva con il resto del mondo, quella relazione che è di “fratellanza” non solo con gli altri umani, ma con l’“anima” di tutto ciò che esiste, e che caratterizza la visione detta appunto “animista”. Già il processo del “disincanto del mondo” aveva portato a un drastico venir meno della dimensione partecipativa del soggetto; la condizione attuale sembra ormai ridurre a pochissime esperienze, quali l’innamoramento o la creazione artistica, questa dimensione. Ma la rinuncia estrema alla comunione psichica con la realtà che ci circonda, osserva ancora Zoja, conduce di fatto a nuove patologie: a “un congela­mento post-affettivo, o addirittura a una ricomparsa di convinzioni magi­che, travestite da mondo virtuale che sostituisce la realtà”.

Certo, anche il monachesimo cristiano ha conosciuto forme estreme, e in qualche caso probabilmente anche patologiche, di “ritiro dal mondo”: ma nel suo nucleo più profondo, esso si orienta in una direzione diametralmente opposta, che è quella della comunione. Lo si vede chiaramente nei maggiori legislatori del monachesimo antico (Basilio, Benedetto), piuttosto diffidenti nei confronti dell’eremitismo e fautori della forma cenobitica del monachesimo; ma anche la migliore tradizione dell’anacoresi, da Antonio ai “padri del deserto”, sa benissimo che la comunione (non solo tra “fratelli” o “sorelle” nella comunità, ma con la Chiesa tutta, e anzi con l’umanità e l’intera creazione) è un valore ben superiore alla fuga e all’isolamento: questi hanno, per così dire, un significato solo “strumentale” – anche quando fossero vissuti per una vita intera.

È ben noto, del resto, che il monachesimo cristiano nasce per rendere possibile, in nuove condizioni, l’antica forma Ecclesiae, il cui manifesto ideale viene identificato con i “sommari” degli Atti degli Apostoli (cfr. At 2, 42-47; 4,32-35): è in gioco dunque la koinonia, come “nucleo” della Chiesa e della nuova creazione.

Se davvero, come sembra, si cammina a grandi passi verso una vera e propria patologia del “ritiro dal mondo”, e si è già dentro, anzi, a quel  mondo “in cui si conosceranno solo trasposizioni e in cui esisterà un corpo di perfetti illusionisti che avranno il compito di studiare la dietetica psicofisica delle masse umane” (con queste parole lo prefigurava già mezzo secolo fa il grande paleoantropologo A. Leroi-Gourhan al termine del suo Il gesto e la parola, Einaudi 1977), diventa più che mai urgente la proposta di una specie di “monachesimo alla rovescia”, che fugge la solitudine della “cella virtuale”, nella quale molti si stanno rinchiudendo, e ricrea gli spazi dell’incontro e della relazione anche “fisica” come autentici spazi di salvezza.



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