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Manuel Larraín Errázuriz, Presidente del CELAM conciliare

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Straordinaria figura di “ponte” nel traghettamento della Chiesa latinoamericana dal concilio al postconcilio, il vescovo di Talca Manuel Larraín Errázuriz apparteneva a un piccolo, ma significativo gruppo di vescovi cileni per i quali l’apertura del Vaticano II rappresenta l’elemento catalizzatore di un processo di rinnovamento già iniziato fra gli anni ’40 e gli anni ’50 del secolo scorso, un periodo di grandi e profonde trasformazioni per il “paese sottile” e più in generale per il continente latinoamericano, sia sul piano socio-politico, sia su quello ecclesiale.


DISCEPOLO DI PADRE HURTADO

Discepolo del gesuita padre Hurtado, principale punto di riferimento di quel cattolicesimo sociale cileno che già negli anni ’20- ’30 aveva trovato autorevoli rappresentanti in seno all’episcopato nazionale, nel 1952 diventa responsabile dell’Azione cattolica cilena, una “scuola” essenziale tanto per la metodologia quanto per l’attitudine comunitaria che veicola.

L’esperienza con la Juventud obrera católica (Joc), in particolare, risulta fondamentale per lo sviluppo di una viva e crescente attenzione ai problemi sociali e per una familiarizzazione con le analisi della realtà proposte dalla nuova sociologia religiosa di matrice francofona. Tale esperienza facilita inoltre la maturazione di una visione e di una prospettiva continentale dei problemi sociali e pastorali, nonché la creazione di legami di solidarietà che si rivelano essenziali nel “decollo” dell’organismo continentale dell’episcopato (Celam), inedita creatura collegiale nata con l’incoraggiamento di Roma nel 1955, ma presto mostratasi capace di una crescita autonoma non senza qualche tensione con la Santa Sede.

PRESIDENTE DEL CELAM

Vicepresidente e poi presidente del Celam dal novembre 1963 fino alla prematura morte accidentale nel giugno 1966, Larraín si presenta dunque all’appuntamento conciliare alla guida di uno strumento unico, espressione di una collegialità episcopale permanente ed organica a cui la riflessione e il dibattito assembleare daranno nuovo significato e nuova consapevolezza ecclesiali.

Inedita occasione per entrare in diretto contatto con la più avanzata teologia europea, per uscire da una situazione di relativa marginalizzazione, per la formazione di nuove reti di relazione e solidarietà differenziate, al Vaticano II la componente latinoamericana inizia a caratterizzarsi sempre più chiaramente con tratti propri, grazie soprattutto al dinamismo di una piccola “squadra” di vescovi che il presidente del Celam riesce a trasformare già “concilio-durante” in un efficace strumento catalizzatore di una ricezione vigorosamente incarnata nella prassi pastorale delle Chiese del continente e sensibile ai sussulti di quest’ultimo.

L’AVVENTURA DELL’ECUMENICO

Organo di informazione e di collegamento fra le assemblee che gli episcopati nazionali tenevano extra aulam, il Celam di Larraín – più volte al cuore delle strategie capaci di far muovere la macchina, spesso pesante, del Vaticano II, dal lavoro di concertazione precedente all’elezione delle commissioni conciliari alla creazione di uno strumento di comunicazione fra alcuni rappresentanti delle conferenze episcopali rappresentativi dei diversi continenti, l’Ecumenico – trova al concilio nuovi orizzonti teologici, nuova linfa alle riflessioni sviluppate in precedenza sui problemi religiosi e sociali del continente divenendo, in modo speciale e unico, il perno istituzionale di una singolare attuazione, creativa e selettiva, degli orientamenti conciliari nella concreta realtà latinoamericana.

GLI INTERVENTI AL CONCILIO

Membro della commissione conciliare per l’apostolato dei laici, poi, dalla fine del ‘64, della commissione mista per lo schema sulla Chiesa nel mondo contemporaneo – in particolare della sottocommissione incaricata del capitolo sulla vita economica –, abituale frequentatore delle riunioni del gruppo “Gesù, la Chiesa e i poveri” che si riunisce attorno al padre Gauthier, Larraín interviene più di una volta in assemblea; nel primo periodo sullo schema liturgico, per ricordare che la liturgia è celebrazione del mistero pasquale di Cristo e che il solo modo di rendere giustizia alla liturgia è rispettare la povertà lodata nel Vangelo; nel secondo periodo per chiedere, assieme al cardinale cileno Silva Henríquez, che il capitolo sul popolo di Dio venisse anteposto a quello sulla gerarchia; nell’autunno del ’65, ancora, per sottolineare come il tema dello sviluppo dovesse essere riconosciuto come un diritto per ogni individuo e per ogni popolo e come esso ponesse quindi anche uno stretto obbligo morale per le nazioni più ricche.

Denunciando l’eufemismo dell’espressione “regioni in via di sviluppo”, si trattava in questo caso della ripresa di un’importante lettera pastorale dell’agosto precedente, Desarrollo: Exito o fracaso en America Latina, immediatamente bloccata in Cile dalle forze conservatrici.

Punto di approdo di un trentennale impegno di riflessione e attività sul terreno sociale di significativi settori della Chiesa cilena, essa interpretava al tempo stesso anche un più vasto e crescente sentire ecclesiale, in cui si faceva sempre più strada la consapevolezza che gli stessi problemi della dimensione temporale della missione evangelizzatrice della Chiesa discussi al Vaticano II si ponessero in modo affatto distinto nella realtà sociale ed ecclesiale del continente e che pertanto, proprio a partire da quest’ultima, essi dovessero essere ripresi e sviluppati in uno sforzo comune delle Chiese latinoamericane.



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