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LA NOSTRA MIOPIA E LA LUNGIMIRANZA DEL CONCILIO E DI PAOLO VI

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La riflessione su due “vecchi” testi del magistero della Chiesa, incontrati quasi per caso, ma la cui lettura mi è parsa di straordinaria attualità, mi ha accompagnato nei mesi scorsi, e la condivido brevemente qui.     
Il primo testo è tratto dalla Costituzione conciliare sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes (1965) e precisamente dal quinto capitolo della seconda parte, dedicato a “La promozione della pace e la comunità delle nazioni”. L’ho ritrovato nella Liturgia delle Ore, che lo riporta per il lunedì della XXXI settimana del tempo ordinario, attingendo in modo particolare al lungo n. 82 (intitolato “La condanna assoluta della guerra e l’azione internazionale per evitarla”). Queste sono le righe che soprattutto mi hanno colpito:

“I capi di Stato [...] dipendono in massima parte dalle opinioni e dai sentimenti delle moltitudini. È inutile infatti che essi si adoperino con tenacia a costruire la pace, finché sentimenti di ostilità, di disprezzo e di diffidenza, odi razziali e ostinate ideologie dividono gli uomini, ponendoli gli uni contro gli altri. Di qui l’estrema, urgente necessità di una rinnovata educazione degli animi e di un nuovo orientamento nell’opinione pubblica. Coloro che si dedicano a un’opera di educazione, specie della gioventù, e coloro che contribuiscono alla formazione della pubblica opinione, considerino loro dovere gravissimo inculcare negli animi di tutti sentimenti nuovi, ispiratori di pace. E ciascuno di noi deve adoperarsi per mutare il suo cuore, aprendo gli occhi sul mondo intero e su tutte quelle cose che gli uomini possono compiere insieme per condurre l’umanità verso un migliore destino”.

Parole di straordinaria attualità, quelle dei padri conciliari. Con un solo limite, forse: che sembrano dare per scontata la buona volontà dei capi delle nazioni di adoperarsi “con tenacia a costruire la pace”, quasi che, invece, “sentimenti di ostilità, di disprezzo e di diffidenza, odi razziali e ostinate ideologie [che] dividono gli uomini, ponendoli gli uni contro gli altri” siano appannaggio solo delle “opinioni e sentimenti delle moltitudini”.

Mi chiedo se, oggi, i padri conciliari non si preoccuperebbero, e molto, anche del fatto che proprio quanti hanno responsabilità di governo, e che dovrebbero sentirsi responsabili della promozione di un mondo più giusto e pacifico, sembrano essere invece i primi, in molti casi, a diffondere “sentimenti di ostilità, disprezzo e diffidenza, odi razziali e ostinate ideologie”, innescando con l’opinione pubblica un circuito che si autoalimenta e si rafforza. Siamo molto lontani, o addirittura agli antipodi, rispetto al “dovere gravissimo”, da parte di chi contribuisce “alla formazione della pubblica opinione”, di “inculcare negli animi di tutti sentimenti nuovi, ispiratori di pace”.

Un altro versante dello stesso problema mi è venuto alla mente imbattendomi in alcune parole di del santo papa Paolo VI a proposito dei migranti. Si tratta di un passo della lettera Octogesima adveniens (1971), dove il papa si sofferma sulla “situazione precaria di un grande numero di lavoratori emigrati, la cui condizione di stranieri rende ancor più difficile, da parte dei medesimi, ogni rivendicazione sociale, nonostante la loro reale partecipazione allo sforzo economico del paese che li accoglie” (n. 17).

Paolo VI ricorda ancora l’urgente necessità di “superare un atteggiamento strettamente nazionalistico, per creare uno statuto che riconosca un diritto all’emigrazione, favorisca la loro integrazione, faciliti la loro promozione professionale e consenta a essi l’accesso a un alloggio decente, dove, occorrendo, possano essere raggiunti dalle loro famiglie” (ivi). E continua: “A questa categoria – noi oggi li chiameremmo i “migranti economici” – si aggiungono le popolazioni che, per trovare lavoro, sottrarsi a una catastrofe o a un clima ostile, abbandonano le loro regioni e si trovano sradicate presso altre genti” (ivi).

È davvero sorprendente, per il nostro miope punto di vista, questo testo: va da sé, per Paolo VI, che la “prima” ragione che spinge a emigrare è quella economica, è la ricerca di migliori condizioni di vita. Altro che “accettare” (più o meno volentieri) i rifugiati perché fuggono da condizioni di guerra o persecuzione (e ci mancherebbe altro!), e respingere invece i “migranti economici” – salvo, magari, andarli a cercare quando ci si rende conto della loro “utilità”. Davvero, questo magistero vecchiotto ha ancora molto da dirci.



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