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JUAN GERARDI / NUNCA MÁS - MAI PIÙ

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Sulla scia delle precedenti biografie di mons. Oscar Romero e dom Hélder Câmara, Anselmo Palini dedica questo volume a Juan Gerardi Conedera, vescovo prima di Verapaz, poi di Santa Cruz del Quiché e infine ausiliare di Città del Guatemala, ucciso il 26 aprile 1998 da alcuni militari, due giorni dopo aver presentato al pubblico il Rapporto Guatemala Nunca más, frutto del progetto interdiocesano Rehmi (Ricupero della memoria storica), che aveva raccolto migliaia di testimonianze di vittime della guerra civile (1960-1996). 

Il libro di Palini è un testo divulgativo, scritto in modo piano e facilmente leggibile, ma che traccia con precisione il ritratto del presule guatemalteco e descrive bene il contesto in cui egli ha vissuto e operato. Ripercorre, infatti, il suo progressivo inserimento nel mondo dei poveri sull’onda del vento conciliare declinato dalla Chiesa latinoamericana nella conferenza di Medellín del 1968, con la promozione di un’innovativa Pastorale indigena e la denuncia della secolare ingiustizia sociale, l’intensificarsi della repressione militare contro le nascenti organizzazioni popolari, che rapidamente diventa anche persecuzione contro la Chiesa, l’esilio in Costa Rica e la creazione dell’Ufficio dei diritti umani dell’arcidiocesi di Città del Guatemala, la partecipazione al processo di pace e la direzione del progetto Rehmi. 

Viene così riscattata una figura poco nota in Italia, ma meritevole di non essere dimenticata. La vicenda di mons. Gerardi è, infatti, parte della tragedia di un piccolo popolo che è stato oggetto di una violenza non solo di grandi dimensioni (200mila morti, 40mila desaparecidos, un milione di sfollati), ma estremamente brutale, e fa impressione ritrovare in un’ideale sinossi tra i racconti di Bartolomé de Las Casas sui massacri compiuti dagli spagnoli durante la “conquista” e le testimonianze sulle stragi attuate dall’esercito nei villaggi indigeni negli anni ‘70 e ’80 del secolo scorso gli stessi uomini arsi vivi, le stesse donne gravide sventrate, gli stessi feti infilzati, con l’unica differenza tra picche e baionette a segnare il passare dei secoli. 

Ma mons. Gerardi è anche l’emblema di una Chiesa, quella guatemalteca, che del martirio dei propri figli in quegli anni (oltre a lui vari preti, centinaia di catechisti e laici impegnati nell’organizzazione dei contadini) ha da subito saputo tenere viva, riscattare e venerare la memoria. 

A lungo non è stato così per la Chiesa salvadoregna, dove per anni il nome dello stesso mons. Romero era impronunciabile pure in alcuni ambienti ecclesiastici e ancora nel 1996, quattro anni dopo la firma degli accordi di pace tra governo e Fronte Farabundo Martì per la liberazione nazionale, davanti a Giovanni Paolo II, il suo ex ausiliare, mons. Marco René Revelo, gli imputò “i 70mila morti che ci sono stati in questo paese”. 

E non è ancora così per la Chiesa cilena coi preti uccisi o fatti sparire durante la dittatura del generale Augusto Pinochet, quasi sempre considerati non veri “martiri”, ma vittime delle proprie scelte politiche, forse perché alcuni di loro avevano avuto conflitti con la gerarchia. 

Infine, mons. Gerardi potrebbe essere definito “martire della verità e della memoria storica”. La sua specificità, infatti, è stata non tanto quella di schierarsi dalla parte dei poveri, essendo in questo accomunato ad altri vescovi uccisi in America latina nell’ultimo mezzo secolo, ma quella di dare la vita affinché sulla tragedia del popolo guatemalteco si facesse luce e non la si dimenticasse. Scelta tutt’altro che scontata, poiché negli anni ’90 sulla “riconciliazione” auspicata dopo la fine dei regimi militari e delle guerre civili nell’istituzione ecclesiastica coesistevano due posizioni opposte, riassumibili l’una nella formula “perdón y olvido”, sostenuta da chi invitava a “non riaprire le ferite”, l’altra in “verdad y justicia”, necessarie secondo molti affinché “le ferite non guarite siano riaperte per curarle e farle cicatrizzare”.



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