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IL PAESE DELLE ARMI / FALSI MITI, ZONE GRIGIE E LOBBY NELL’ITALIA ARMATA

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Questo libro è una sfida ai tanti luoghi comuni sulle armi in Italia. Luoghi comuni fondati su una propaganda di parte, oppure sulla disinformazione che – sia in ambito accademico, sia nel vasto territorio dei social media e della comunicazione in generale – raggiunge attorno a questo tema punte di superficialità e approssimazione difficilmente riscontrabili in altri ambiti. Tuttavia è anche un lavoro di grande acutezza sul costume del nostro paese, sulla tendenza, spesso spudorata, di chi è chiamato ad amministrare importanti strutture dello Stato – in particolare negli ambiti più delicati per la vita di una democrazia come la difesa, la giustizia e la sicurezza interna – all’opacità, al mimetismo istituzionale, innervato solidamente su labirinti burocratici tra i quali si acquattano funzionari e dirigenti accidiosi. 

È una raffigurazione impietosa sulla quasi inesistente cognizione dell’etica della responsabilità da parte dei tanti politici che si sono succeduti nei governi degli ultimi trent’anni. Infine, nello studio è messa bene in evidenza la contiguità interessata, coperta da una coltre spessa di nuvole nere, tra le principali imprese del settore armiero, civile e militare, e gli apparati amministrativi e politici di cui sopra. Una contiguità che si fa beffe delle conseguenze spesso drammatiche della diffusione della armi leggere nel mondo, cui non importa nulla – pecunia non olet – della violenza, della repressione brutale, di quanto siano calpestati i diritti umani dagli acquirenti dei nostri distruttivi ed efficienti prodotti.

Nella prima parte del libro, l’Autore ci presenta un’analisi accurata della produzione armiera, del suo impatto economico, valutando con attenzione il segmento fondamentale dell’export, fino allo studio approfondito delle caratteristiche peculiari dell’imprenditoria del settore. Quindi si dedica alla verifica della reale diffusione delle “armi comuni” in Italia, in particolar modo alle sue conseguenze, sul piano politico e sociale.

Nonostante la trasparenza sia una parola sconosciuta tra chi opera nel settore, l’Autore mette in chiaro i punti principali da cui partire per un’analisi fondata e credibile. Il valore totale della produzione di armi e munizioni per uso civile non ha raggiunto i 600 milioni di euro nel 2019, rappresentando lo 0,03 per cento del Pil, paragonabile al settore dei giocattoli, esclusi quelli elettronici. Lontano anni luce da settori ben più trainanti per l’economia del paese, e per il cosiddetto made in Italy, come quello degli occhiali o delle calzature, solo per fare alcuni esempi. Un settore, quello delle armi, che supera di poco i tremila addetti, lo 0,03 per cento dei dipendenti di tutte le imprese italiane. Numeri che dicono bene la marginalità di questo segmento, che la narrazione comune descrive come trainante e fondamentale per le sorti del paese. Tuttavia le esportazioni di questi strumenti di morte – peggio, “armi di distruzione di massa”, come ebbe a dire l’allora segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, nella Conferenza del Millennio, del 2000 – rappresentano oltre il 90 per cento della produzione complessiva, buona parte della quale è finita, negli ultimi decenni, nelle mani di forze armate e di polizia e di corpi repressivi di diversi paesi nei quali il rispetto dei diritti umani è pressoché sconosciuto: Arabia Saudita, Egitto, Qatar, Oman, Thailandia, Messico, Myanmar, in una lunga lista che vede presente anche la Russia di Putin.

“Il paese delle armi” è un libro che si legge d’un fiato – tanta la cristallina chiarezza della scrittura di Beretta, tanta la passione che traspare in filigrana dal suo narrare – anche quando, nell’ultima parte di questo fondamentale lavoro, si sofferma sul problema degli omicidi con armi legalmente detenute e sul fenomeno ripugnante dei “femicidi”. Laddove emerge l’ombra della sottocultura patriarcale. Ancora tristemente radicata in questo paese.



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