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I MARTIRI D’ALGERIA: LA MISSIONE COME AMICIZIA

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Il 27 gennaio scorso è stata comunicata la notizia del riconoscimento ufficiale del martirio di “mons. Claverie e dei suoi diciotto compagni di martirio”:

          questa dicitura mette come capofila del gruppo dei martiri d’Algeria degli anni ’90 l’ultima vittima cristiana di quegli anni drammatici, mons. Pierre Claverie, domenicano, vescovo di Orano, ucciso il 1° agosto 1996 insieme con un giovane musulmano, Mohamed Bouchikhi, che aveva scelto di restargli vicino, ben consapevole dei rischi che correva; pochi mesi prima, in maggio, era stata la volta dei sette monaci trappisti di Tibhirine – Christian, Christophe, Luc, Michel, Bruno, Célestin e Paul; l’anno precedente era toccato a Odette, piccola sorella del Sacro Cuore (10 novembre 1995) e alle due suore di Nostra Signora degli Apostoli, Angèle-Marie e Bibiane (3 settembre 1995); nel 1994, la testimonianza col sangue l’avevano resa quattro Missionari d’Africa (Padri Bianchi), Alain, Jean, Charles e Christian (27 dicembre), due suore agostiniane spagnole, Esther e Caridad (23 ottobre) e, primi in ordine di tempo, Henri, fratello marista, e Paul-Hélène, piccola sorella dell’Assunzione (8 maggio).

C’è da ringraziare Dio per il riconoscimento di questo martirio: e chiedergli di saperlo leggere in modo giusto, come hanno sottolineato i vescovi d’Algeria nel messaggio diffuso in occasione di questo riconoscimento. Perché il martirio di questi diciannove fratelli e sorelle, come scrivono i vescovi, attesta la loro disponibilità a essere “testimoni dell’amore più grande, quello di dare la vita per i propri amici. Di fronte al pericolo della morte onnipresente nel paese, hanno fatto la scelta, a rischio della loro vita, di vivere fino all’ultimo i legami di fraternità e amicizia che avevano intessuto con i loro fratelli e sorelle algerini per amore”.

“I nostri fratelli e sorelle – continuano i vescovi – non accetterebbero di essere separati da tutti quelli in mezzo ai quali hanno dato la loro vita. Sono testimoni di una fraternità senza frontiere, di un amore che non fa differenze. Per questo, la loro morte mette in luce il martirio di tutti coloro che, algerini, musulmani, cercatori di senso, quali costruttori di pace, perseguitati per la giustizia, uomini e donne di cuore retto, sono stati fedeli fino alla morte durante il decennio nero che ha insanguinato l’Algeria”.

I diciannove martiri algerini – dice ancora il messaggio – erano “semplicemente membri di una piccola Chiesa cattolica in Algeria che, benché costituita prevalentemente da stranieri, e spesso considerata essa stessa straniera, ha tirato le conseguenze naturali della sua scelta di essere pienamente parte di questo paese. Era chiaro per ciascuno dei suoi membri che quando si ama qualcuno non lo si abbandona nel momento della prova. È il miracolo quotidiano dell’amicizia e della fraternità”.

Che la Chiesa possa vivere la sua missione evangelica secondo la “logica” dell’amicizia non è qualcosa di cui l’ecclesiologia si sia occupata molto, sinora.

L’Algeria cristiana ha una lezione da dare, a proposito di una possibile “ecclesiologia dell’amicizia”: una lezione che risale almeno all’idea di missione del card. Lavigerie (1825-1892), fondatore dei Padri Bianchi, passa attraverso l’esperienza singolare del beato Charles de Foucauld (1858-1916), trova un altro testimone fondamentale nel card. Duval, arcivescovo di Algeri dal 1954 al 1988 (e il cui funerale si celebrò insieme con quello dei monaci di Tibhirine), e riceve il sigillo definitivo con i martiri degli anni ’90.

Ce n’è abbastanza, mi sembra, perché si possa riflettere su questo modo di essere Chiesa, e perché tutta la Chiesa – e ogni Chiesa particolare – mediti sul fatto che solo la sua vicinanza amicale, fino a “dare la vita per chi si ama” e patisce sulla croce, le permette di vivere. Lo diceva con passione di fede mons. Claverie, poche settimane prima della morte.

          “Rimaniamo in Algeria – ricordava in un’omelia tenuta il 23 giugno 1996 –, come al capezzale di un amico, di un fratello ammalato, in silenzio, tenendogli la mano, asciugandogli la fronte. A causa di Gesù, perché è lui che soffre là, in questa violenza che non risparmia nessuno, crocifisso di nuovo nella carne di migliaia di innocenti […]. Non è essenziale, per un cristiano, essere là, nei luoghi della sofferenza, nei luoghi dove si è abbandonati, dimenticati? Dove dovrebbe essere la Chiesa di Gesù Cristo, essa stessa corpo di Cristo, se non anzitutto là? Io penso che muoia per non essere abbastanza vicina alla croce di Gesù”.

Che Dio risparmi alla Chiesa una morte per inedia, e le dia la grazia della vita data per chi si ama.



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