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GIUSTIZIA RIPARATIVA ANCHE PER I REATI DI MAFIA?

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Intervista a Salvatore Inguì
Salvatore Inguì è direttore dell’Ufficio servizio sociale per i minorenni, alle dipendenze del Ministero della Giustizia, di Palermo, oltre che referente di “Libera” di Trapani e ideatore del progetto “Amuni”.

Durante l’emergenza sanitaria sono state disposte molte scarcerazioni, anche di detenuti per gravi delitti ascrivibili alla criminalità organizzata. Alcuni casi soggetti al regime di 41bis. Qual è il suo punto di vista? 

Se la ragione di fondo della scelta di mettere in libertà dei soggetti che stavano scontando la pena nel regime del “carcere duro” era legata alla salvaguardia della loro salute, è chiaro che andava presa senza discussioni. Al contrario, il problema del contagio da Covid-19 in ambito di regime carcerario speciale difficilmente potrebbe sussistere. In una situazione nella quale le possibilità di incontro con l’esterno sono ridotte al minimo, i controlli sono effettuati in maniera sistematica e puntigliosa, la tutela delle persone da un eventuale contagio è ridotta al minimo. Sicuramente perplessità e domande inquietanti sono emerse con chiarezza. Qualcuno ha ipotizzato – e io credo che questa traccia potrebbe non essere lontana dalla verità – che la scelta sia stata legata alla necessità di sedare le rivolte nate all’interno degli istituti penitenziari, il cui sincronismo difficilmente può essere spiegato come casuale. È più probabile che le rivolte, poggiate su un malcontento reale e diffuso, siano state gestite da una organizzazione in grado di reggere le fila di una protesta. Da qui alcune strutture potrebbero aver cercato mediazioni per “raffreddare” la situazione.

Percorsi di giustizia riparativa sono possibili anche per reati di mafia? A quali condizioni? Quali i rischi di questa scelta?

A mio parere la via della riparazione dovrebbe e potrebbe essere sempre applicata, a qualsiasi soggetto, anche a chi abbia commesso un reato di natura gravissima. Naturalmente dovrebbe seguire un percorso personale di maturazione e rivisitazione di tutti i propri comportamenti relativi al reato commesso e alle modalità con cui si intende riparare. Credo che la prima condizione debba essere la presa di distanza materiale dal reato, ma anche dalle organizzazioni criminali nelle quali si è operato. Quest’ultimo è un punto delicato. In Italia abbiamo una legge sul pentitismo in relazione alle attività della criminalità organizzata. Credo però che la via della dissociazione potrebbe anch’essa essere presa in considerazione. Ci sono situazioni nelle quali, per questa strada, avremmo ottenuto risultati importanti. Saremmo arrivati a scoprire la verità dei fatti. Attendiamo sia giustizia, sia verità, ma prima ancora della giustizia, in particolare nel nostro paese, è la verità che deve essere svelata. Dobbiamo capire perché fatti gravissimi, che hanno segnato la vita del paese, sono accaduti e quali interessi e soggetti si sono mossi su quel crinale storico, sociale e politico.

Naturalmente c’è anche il tema del sistema giudiziario e carcerario, centrato e organizzato sulla punizione piuttosto che sulla riabilitazione. Abbiamo più forze di polizia penitenziaria che educatori, psicologi, sociologi, assistenti sociali, la gran parte dei quali operatori di società esterne al sistema pubblico. Situazione per cui molti soggetti già condannati, che potrebbero usufruire di misure alternative, non vi accederanno mai. Serve, urgentemente, un riequilibrio tra tutte queste funzioni. Solo così si potrà iniziare a pensare seriamente al momento riabilitativo.

L’art. 27 della Costituzione indica la rieducazione come obbiettivo della pena. Qual è la sua esperienza in relazione ai percorsi seguiti nelle strutture detentive del paese? Quali i risultati e le criticità e/o positività?  

Lavoro con ragazzi che hanno commesso reati nella minore età. Negli anni abbiamo fatto lunghi percorsi, molti con esiti felici. In primo luogo, è importante che un operatore sociale possa aver rapporti frequenti e intensi con i propri ragazzi. Dobbiamo creare una relazione di fiducia tra chi rappresenta le istituzioni e chi ha commesso il reato. Il più delle volte il ragazzo si sente un fallito, “nessuno”. Certe espressioni, anche violente, sono un modo per affermare il proprio esserci. Allora una serie di attività, da quelle sportive a quelle culturali, l’incontro con gli altri, predispongono per avviare percorsi di giustizia riparativa all’interno del circuito penale minorile.

Negli anni scorsi, dopo molte difficoltà, sono riuscito a mettere in atto progetti che mi hanno consentito di portare i ragazzi, usciti dal carcere in misura alternativa o in messa alla prova, in attività solidali in paesi esteri. Viaggi solidali in Africa, oppure in Centro America. Per i nostri ragazzi il concetto di viaggio è pressoché inesistente, l’orizzonte geografico raramente va oltre i muretti del quartiere. Eppure quando partono e scoprono come si vive da un’altra parte del pianeta, accadono fatti impensabili. Dare anche un piccolo contributo per l’edificazione di un dispensario nel deserto a sud della Tunisia piuttosto che di un gallinaio o di una casa per ragazzi down in Chiapas (Messico), spesso ha fatto la differenza. Tante volte l’esperienza maturata nell’arco di 10/12 giorni rispetto al ripensamento di sé, della propria storia, vale più di vent’anni anni di galera. Emerge la speranza di poter cambiare, di sentirsi persone diverse. Naturalmente le risorse messe a disposizione per questo tipo di percorsi sono così esigue che, pur essendo un funzionario dello Stato, più volte sono dovuto ricorrere a forme di autofinanziamento per poterle realizzare. Alcuni ragazzi sono tornati da questi viaggi dicendomi, con le lacrime agli occhi: “sono partito per un delinquente e, mi pare a me, che so tornato che mi sento un missionario”. Come quando avvenne l’incontro con una mamma morente di Aids e una figlia che si stava avviando alla cecità perché non riusciva a raccogliere gli 800,00 dollari necessari per un’operazione agli occhi. I ragazzi si guardarono in faccia e dissero “tiriamo fuori tutto quello che abbiamo e quelli che mancano li chiediamo a qualcuno in Italia”, e così dettero una possibilità a quella bambina. 

Fiammetta Borsellino, prima del suo incontro in carcere con alcuni dei boss accusati dell’assassinio del padre, ha detto: “Può vivere e morire con dignità non soltanto il magistrato che sacrifica la propria vita, ma anche chi […] è capace di riconoscere il grave male che ha inflitto alle famiglie e alla società […]. Riparare il danno per me vuol dire non passare il resto della propria vita all’interno di un carcere, ma dare un contributo concreto per la ricerca della verità”. Qual è la sua opinione al riguardo?

Fiammetta ha espresso lucidamente quanto cercavo di spiegare all’inizio. So che questo tema suscita fratture anche all’interno di “Libera”, perché si mescolano razionalità ed emotività. Quante volte ci siamo sentiti dire dai familiari di vittime innocenti di mafia che non si può parlare di riabilitazione. Anche se non è sempre così. La storia di Luciana Di Mauro Montanino, racconta tutt’altro. Suo marito Gaetano, guardia giurata, venne assassinato a Napoli nel 2009 da quattro ragazzi, tutti arrestati. Luciana dopo alcuni anni incontrò il più giovane del gruppo, Antonio, che all’epoca dei fatti aveva 16 anni. Pensava di trovarsi davanti un mostro, trovò un ragazzino che tremava e piangeva. Chiedeva perdono, dicendo che non doveva farlo, che non lo avrebbe fatto mai più. Da quell’incontro iniziò un percorso straordinario che ha portato Luciana a diventare una sorta di genitrice adottiva di Antonio, una donna che sta cercando, proprio in memoria del marito, di contribuire a una rinascita, quella di un ragazzo giovane, ora padre di due figli. 



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