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Forum "Educare sulla Soglia", Interventi

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MIMMO CORTESE

Ringrazio Fucecchi, da cui vorrei partire. C’è un bellissimo e terribile racconto di Raymond Carver in “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore”, in cui una coppia con un bambino va in crisi fino a che i due, nell’ennesimo litigio, si contendono il figlio fisicamente, strappandolo letteralmente l’uno dalle braccia dell’altro. Quindi quando passiamo dall’arancia alla situazione concreta, c’è un cambiamento sensibile! Ho poi tre domande per tutti i relatori.

La prima riguarda il linguaggio: finché c’è un codice comune che ci permette di comprendere e incamminarci sulla strada di quanto detto oggi, forse è possibile arrivare anche in fondo, ma se tale linguaggio non si trova, che succede?

L’altra questione riguarda i “modi”, che Fucecchi declinava riferendosi ai “modi” della traduzione; io credo dobbiamo lavorare anche sui “modi” pubblici, occupandoci non solo dei conflitti tra persone, ma anche di quello collettivo tra portatori di interessi e ideali. Credo vada approfondita pure la questione della tecnica, perché bisogna tener conto che essa oggi non solo ci offre forme di linguaggio diverse, ma ci impone una modalità. L’ultima domanda riguarda la produzione normativa: per evitare che i discorsi di oggi esprimano solo moti dell’animo, sentimenti, non bisogna tradurli in possibilità di cambiamento delle prassi e delle leggi?

DINO POMA

Ceruti ha detto che “una volta gli anni duravano di più” e poco fa Fucecchi ha aggiunto: “Non siamo più quelli di 30 anni fa”. Un amico, p. Luigi Paggi, mi ha suggerito di “seguire con attenzione quanto dirà p. Marini. Se lo incontra gli dica che qualcuno di noi, qui in Bangla Desh, lo considera un mezzo profeta”. Vorrei chieder a questo “mezzo profeta” che cosa lo ha sorpreso di più in questo suo mezzo secolo di vita missionaria.

GABRIELE SMUSSI

Fucecchi ha parlato dell’importanza dell’educatore come seminatore. Ma gli educatori sono formati a sufficienza per svolgere questo ruolo? A Torres Queiruga vorrei chiedere un parere su quella teologia che parla di una creazione imperfetta e, quindi, di una partecipazione di tutti e tutte all’atto creativo di Dio che continua nella storia.

Infine, si è ricordato che durante la conquista europea e cristiana dell’America latina si è discusso se gli indigeni avessero o meno l’anima per essere convertiti. Come mai, invece, in Africa si è parlato solo di “uomini che vivono sugli alberi” (ottentotti o boscimani), per concludere che quella terra era “res nullius” e quindi la si poteva conquistare?

SUOR ANTONELLA (Missionaria Comboniana)

Padre Mendoza ha richiamato l’esigenza di denunciare ancora le ingiustizie e le oppressioni. La sua è una teologia della liberazione veramente incarnata nell’anima e nella storia latinoamericana. Allora mi pare di capire che si deve continuare a lottare per i diritti delle persone, ma in una forma di dialogo, senza risentimenti e ricercando insieme la verità. È così? Riguardo a quanto detto da Fucecchi, mi capita spesso di incontrare giovani universitari che, di fronte a piccole difficoltà, giudicano se stessi o gli altri “sfigati”, mentre a noi è stato insegnato che si diventa adulti affrontando le avversità con energia, valori e creatività, e di vederli affiancati da altri giovani che, venendo da altri paesi, hanno lasciato patrimoni di affettività e cultura nella speranza di condividere una civiltà migliore e invece si trovano, per sentirsi accettati e intergrati, a dover condividere lo “sballo” del sabato sera. In questo contesto come interviene l’educazione e che collaborazione c’è tra le diverse agenzie educative?

GIANCARLO PIANTA

A p. Mendoza vorrei chiedere qual è il rapporto tra la vittima sacrificale e la lotta di classe, la violenza subita e la necessità di rispondere o meno?

FUCECCHI

Trovo stimolanti tutte le domande. Parto da quella sui linguaggi, collegandola alla formazione degli educatori. Nella maggior parte delle situazioni un educatore è inadeguato. E nel migliore dei casi è un servo inutile. Quindi pensare di poter risolvere alcune situazioni di difficoltà in un battibaleno è impossibile. Sicuramente si può essere educatori più o meno consapevoli che abbiamo un ruolo, seppur modesto, da svolgere, l’importante è il rigore con cui agiamo, la fedeltà alle idee che riteniamo importanti, l’ascolto dell’alto.

Quello dell’ascolto è un problema non di quanto dovrò dire, ma delle buone orecchie che avrò per ascoltare i messaggi che l’altro comunque invia con le sue parole, i suoi comportamenti. Io ho imparato molto da mio marito, siriano e musulmano, perché l’interazione con lui mi ha profondamente decostruito, ma mi ha anche insegnato ad avere la pazienza giusta, a trovare altre strade per arrivare, sapendo comunque che non è la teologia a farci confliggere, ma le pratiche della vita quotidiana.

Qui uno si educa educandosi, nella vita; non c’è un manuale o training. Il migliore educatore, quindi, è quello che ha il coraggio di decostruirsi e ricostruirsi costantemente, il che è fondamentale se non si tratta di trasmettere un galateo, ma di rigenerare una communitas, una polis che non esiste più. Scuola e famiglia non sempre agiscono con una comunione di intenti e a volte mi sento dire che siamo eroici (o patetici) perché siamo rimasti gli unici a cercare di porre argini o remare controcorrente quando la partita educativa sembra persa. In questa forza i ragazzi, anche quelli più difficili, vedono il coraggio di un esempio, un’autenticità che diventa credibilità e può educare anche se non sembra al momento, perché questi comportamenti lasciano un segno.

I giovani della seconda generazione sono chiamati dagli antropologi “pendolari tra mondi dissonanti”, perché devono confrontarsi con almeno tre o quattro aspettative diverse: quelle del mondo d’origine dei genitori, quelle della società di arrivo, quelle dei coetanei e quelle che gli italiani hanno nei loro confronti in quanto appartenenti a una determinata etnia. Perciò se il sudamericano pensa di avere un’identità comportandosi secondo lo stereotipo che gli viene attribuito, lo farà. Quindi questo difficilissimo lavoro educativo parte sempre dalla capacità di ascoltare e cogliere i segnali che l’altro invia. Per rispondere si scelgono poi i modi che appaiono più adatti alla situazione, fermo restando l’umiltà di riconoscere che nulla è garantito. Si semina, ma non si sa se, dove, come e quando si raccoglierà. Però continuare a seminare è un dovere dell’educatore.

MENDOZA-ÁLVAREZ

Mi concentrerò sulla questione della risoluzione dei conflitti. L’America latina ha vissuto negli ultimi quaranta anni un’importante transizione democratica: dalle dittature militari nel Cono sud o dai sistemi di partito unico in America centrale e Messico si è passati a società democratiche con elezioni pluripartitiche. Perciò i ventenni, hanno un approccio al conflitto diverso da quello legato all’esistenza di una dittatura militare o di un regime monopartitico, ma come cittadini di democrazie moderne.

In questo senso anche la presenza dei cristiani (cattolici o evangelici) è cambiata in modo notevole, perché essi hanno dovuto entrare in una dinamica di cambiamento sociale e l’agenda politica della risoluzione dei conflitti è passata in primo piano. Per esempio, la conquista di diritti civili, in particolare per le minoranze escluse (indigene o minoranze sessuali) o il riconoscimento dei diritti delle vittime a un risarcimento per i danni subiti a causa della guerra al narcotraffico, come in Messico, o la ricerca di autonomia da parte dei popoli originari all’interno degli Stati nazionali, non passa più per la rivoluzione sociale, la guerriglia, ma attraverso la partecipazione civile democratica; ciò vale anche nel caso del movimento indigeno zapatista, che ha rappresentato una ribellione sui generis, non una guerriglia stile anni ’70.

Questi recenti fenomeni sociali hanno anche un’interpretazione da parte delle scienze sociali e della teologia: sono questi nuovi soggetti sociali emergenti a intendere la propria identità in modo diverso, il conflitto non è inteso come un’utopia di superamento definitivo della rivalità, ma come un negoziato per conquistare spazi di libertà, per esempio i diritti riproduttivi delle donne, il matrimonio delle coppie dello stesso sesso, e il riconoscimento delle autonomie indigene.

La teologia latinoamericana ha cercato di riflettere su questi processi, poiché nuove circostanze storiche generano una nuova riflessione a partire dalla fede e quella che ho delineato a proposito del superamento del risentimento è uno strumento utile per comprendere questo nuovo posizionamento dei gruppi di minoranza escluse nella loro ricerca di diritti.

MARINI

Degli ultimi dieci anni che ho trascorso in Indonesia ho passato i primi sei in una parrocchia e gli altri quattro in una comunità di formazione che si contraddistingue per l’apertura al dialogo: ogni mese organizziamo un incontro interreligioso. Avevo cominciato il primo periodo con l’idea che fosse il momento della “semina del Vangelo”, ma mi sono accorto come ci fosse, a fianco di molti episodi evangelici, una certa strumentalizzazione della religione, usata per stare meglio, sulla scia di una certa “Teologia della prosperità” presente anche in Indonesia.

Abbiamo quindi cercato di promuovere il passaggio da questa idea “funzionale” della religione e dalla riduzione di Dio a strumento a un riconoscimento di Dio come ricchezza senza condizioni, che non va addomesticato o reso benevolo, dove non si deve chiedere nulla, ma ringraziare e donare agli altri. Questa situazione mi ha messo in difficoltà, perché mi chiedevano benedizioni di oggetti o preghiere speciali, con un atteggiamento certamente di fede, ma anche con una mentalità un po’ mercantile. Io accettavo, ma non potevo non osservare l’ambiguità di questa domanda religiosa.

La seconda sorpresa mi è arrivata dal dialogo: che ci siano gruppi musulmani fondamentalisti non mi ha sorpreso, avviene anche nel cristianesimo, ma mi ha meravigliato trovare tra loro esperienze, persone e sensibilità evangeliche, che si rafforzano e diffondono. Il dialogo allora non è stato di tipo teologico, ma quasi una scusa per intrecciare rapporti, per creare solidarietà e apertura mentale, per rafforzarli nel rispetto degli altri, nella lotta contro la poligamia, in una nuova lettura del Corano. Così mi sono accorto che nei travagli in cui essi vivono noi siamo spesso passati a nostra volta (Inquisizione, lettura fondamentalista della Bibbia, esclusione dell’altro, ecc.,) per cui la nostra presenza può rafforzare queste novità presenti nei loro cuori e nelle loro vite. In fondo sia i cristiani sia i musulmani hanno bisogno di una purificazione, un discernimento, una crescita mai finiti.

TORRES QUERUGA

Dio crea creatori e ci crea per amore, cercando unicamente la nostra realizzazione e perfezione. Ci sono cose che la creazione fa andare avanti da sé: il sangue circola nelle mie vene senza che io me ne debba occupare; ne posso ringraziare Dio che mi ha creato capace di questo, ma ciò che ci rende persone passa per la nostra libertà: se vedo vicino a me una persona che soffre, Dio, attraverso la sua azione creativa, mi sta chiamando ad aiutarla, ma io posso rispondere “” o “no”.

Nella parabola del Samaritano due dicono “no” e uno “”, ma Dio ha lavorato in tutti e tre e il samaritano non ha una grazia particolare. L’azione di Dio dipende dalla nostra libertà, tanto che l’opera cui non collaboriamo rimarrà priva di efficacia. Non vale, quindi, pregare affinché Dio abbia pietà dei bambini africani che soffrono la fame, perché moriranno se noi non accettiamo questo impulso creativo di Dio che ci chiama ad aiutarli. Non ci sarà nessun miracolo, se non grazie al nostro “sì” a Dio come il samaritano.

Questo ci impone di riformulare la nostra preghiera, che consiste nel cercare di capire dove mi porta l’azione amorosa di Dio, la quale mi spinge al mio bene e al bene altrui.



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