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Nel recente incontro mondiale delle famiglie, a Milano, il Papa ha chiesto loro di avere coraggio. Il termine è abitualmente usato di fronte a una difficoltà, a una battaglia, a un martirio. Nel caso specifico richiama la parola di Gesù durante l’ultima Cena: “Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo!” (Gv 16,33), dove l’intonazione è più quella della fiducia e della speranza che della contrapposizione e del combattimento.

È evidente che le famiglie sono oggi in difficoltà; perfino il concetto di famiglia è “in tribolazione”. I mass media hanno posto l’accento sulla benevolenza del Papa verso i divorziati, anche verso quelli che hanno contratto un matrimonio civile o un’unione di fatto. La stessa benevolenza del Papa, tuttavia, rimarca la vastità del fenomeno. Dicendo che anche i divorziati sono ancora nella Chiesa, ha chiarito che neanche le fragilità dell’amore umano e i suoi fallimenti mettono in discussione la natura ecclesiale della famiglia. Anzi, la riscoperta di questa natura è più importante, ai fini pastorali, che non la sottolineatura delle peripezie che la coppia attraversa. Da questo punto di vista si può parlare di una svolta nell’atteggiamento, se non nell’insegnamento, del magistero pontificio.

Bisogna richiamare, in questo contesto, che la famiglia, anche non cristiana, è il luogo della ricomposizione delle diversità originarie – fra uomo e donna e fra le generazioni che si succedono – in una comunione profonda, sulla base dell’amore reciproco. Per questo ogni famiglia è segno, sulla terra, della Trinità e dell’unione sponsale e generatrice di Cristo con la sua Chiesa. In un mondo in cui le diversità tendono a generare violenze, questo carattere della famiglia indica un aspetto quanto mai attuale della “missione familiare”: un compito nativo di riconciliazione e di valorizzazione delle diversità. Quando poi la famiglia è “cristiana”, per la fede e il sacramento che la fonda, questo compito diventa più specifico e proclama esplicitamente l’amore di Dio per tutte le sue creature.

Nella famiglia avviene allora la prima comunicazione della fede, sia fra moglie e marito, che tra genitori e figli.

La consegna della fede (traditio fidei) è il primo atto di missione della famiglia cristiana. L’ascolto abituale della Parola, l’ospitalità come accoglienza e ascolto, e la povertà come distacco dai beni materiali per rivalutare quelli culturali e spirituali sono le condizioni minime di fedeltà al Vangelo. Una famiglia che su queste basi adotta nuovi stili di vita è pronta a “rispondere a chiunque le domandi ragione della propria speranza, […] con dolcezza e rispetto” (cf. 1 Pt 3,15). L’annuncio discreto del Vangelo ai propri vicini è il secondo atto di missione della famiglia. Non a tutte le famiglie cristiane è richiesto di lasciare la propria terra e di portarsi in altri paesi per testimoniare e annunciare il Vangelo, ma a tutte è chiesta la disponibilità a farlo. Quando le circostanze o una precisa chiamata orientano a questa scelta, non si è solo al terzo atto di missione, ma al suo atto esemplare, paradigmatico di ogni missione.

Le “famiglie missionarie” sono oggi in crescita nella Chiesa, anche se non in crescita sufficiente. A volte sono coinvolte in “fraternità missionarie”, che legano insieme preti, religiosi/e e laici. Quasi sempre orientate a rientrare nel paese di origine, non per questo rinunciano alla missione, piuttosto ne compiono l’ultimo atto, in una vita tutta proiettata a rimanere segno alto di quella “natura missionaria” della Chiesa e, quindi, della famiglia che il Concilio Vaticano II ci invitò, 50 anni fa, a riscoprire.



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