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Brasile, le comunità di discepolato

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  • INTERVISTA A DOMENICO BORROTTImissionario saveriano di Patigno di Zeri, diocesi di Massa Carrara-Pontremoli, lavora da 30 anni in Brasile. Attualmente è superiore regionale dei saveriani del Brasile Sud.

Negli ultimi anni in Brasile lei è stato protagonista del tentativo di rinnovare la parrocchia alla luce della “nuova evangelizzazione”. A che conclusioni è giunto?

Sono in Brasile da trent’anni e ho quasi sempre lavorato per formare nuove parrocchie con la preoccupazione di motivare i cattolici a impegnarsi nella “nuova evangelizzazione”. Così, per esempio, nell’arcidiocesi di Campinas (Stato di São Paulo), circa 15 anni fa, abbiamo realizzato le missioni popolari, seguendo la proposta di don Luigi Mosconi. Migliaia di volontari di tutte le parrocchie si sono mobilitati per visitare un gran numero di cattolici poco o per nulla praticanti, per motivarli a partecipare. Tuttavia dopo due anni quasi nessuno continuava a seguire questi cattolici non praticanti per aiutarli a ritrovare una vita di fede fino a diventare loro stessi missionari, come si era proposto all’inizio.

Come cercate di colmare queste lacune?

Da cinque anni lavoriamo per dare ai cattolici la possibilità di compiere questo cammino di conversione. Da due anni usiamo il metodo del Sine (Sistema integrale di nuova evangelizzazione), nato in Messico, che si è dimostrato efficace. Cerchiamo di far vivere ai parrocchiani un’esperienza kerigmatica, cioè un momento forte, in cui abbiano un incontro vivo con Cristo, attraverso la comunicazione di esperienze da parte di annunciatori preparati (in genere laici, perché sanno parlare meglio al cuore delle persone, mentre noi preti siamo troppo razionali). E questo in piccoli gruppi, di circa quaranta persone. Un numero maggiore sarebbe insostenibile. C’è un’equipe che segue personalmente i partecipanti attraverso colloqui che aiutano a personalizzare quanto annunciato. Nella maggioranza dei casi la fede si ravviva.

Come è articolato il momento kerigmatico?

Sono ritiri di alcuni giorni o incontri settimanali per cinque-sei mesi, che si articolano in due fasi. La prima consiste nel far prendere coscienza dell’amore di Dio: Dio si interessa dell’uomo gratuitamente; Gesù ha dato tutta la sua vita per tutti gli uomini, compresi i nemici. La seconda nel rendere consapevoli del peccato: l’uomo, anche se creato a immagine e somiglianza di Dio, è tentato dal potere, dall’avere e dal piacere, da cui soltanto Cristo può guarirlo, specialmente grazie all’eucaristia.

Però l’annuncio non basta?

Quando la fede si ravviva nelle persone, è giocoforza accompagnarle, pena il suo spegnersi di nuovo. Ecco allora l’esigenza di momenti di discepolato, ritrovandosi in piccole comunità per verificare se si è o meno discepoli di Cristo (rispondendo a domande come: in che modo ci siamo lasciati trasformare da Lui? È veramente Lui il Signore del mio tempo, dei miei soldi e dei miei progetti?). Dopo l’annuncio iniziale e una preparazione di alcune settimane, molti entrano nella comunità, che si riunisce settimanalmente in una casa e a cui vengono forniti in continuazione contenuti semplici che riguardano la vita cristiana.

Dalla conversione si passa all’adesione concreta a Cristo, attraverso la partecipazione ai sacramenti, ecc.

L’incontro, condotto dal coordinatore della comunità, inizia con quaranta minuti di preghiera, continua con un momento di studio, cui segue la condivisione delle esperienze di vita. Una volta al mese al centro della condivisione c’è l’esperienza della solidarietà sociale. Il gruppo è stabile e ogni due-tre mesi i membri invitano amici, vicini e parenti, a un incontro per presentare ciò che fanno e stimolarli a intraprendere a loro volta il cammino kerigmatico per formare un’altra comunità. Così tutti diventano gradualmente missionari e, dopo un anno e mezzo, ogni nuovo membro può impegnarsi in un’attività di nuova evangelizzazione verso coloro che sono distanti dalla Chiesa, con l’obiettivo di stimolarli a fare un’esperienza kerigmatica più completa. Generalmente nel giro di un anno si avviano quattro-cinque nuove comunità. Penso addirittura che il ritmo possa crescere.

Chi sono gli animatori di queste comunità?

Laici preparati secondo l’idea spiegata dal mio collega saveriano, padre Claudio Bortolossi, nel libretto La fontana de villaggio, da una parrocchia sacramentale a una parrocchia evangelizzatrice. Comunque, c’è sempre l’accompagnamento di un prete. Il lavoro è molto, ma il risultato si vede. Se avessimo iniziato trent’anni anni fa, i pentecostali non sarebbero riusciti ad radicarsi tanto in Brasile, perché essi partono proprio da un forte momento kerigmatico, anche se sono carenti a livello di discepolato.

Quante comunità esistono nella sua parrocchia e che legami esistono tra loro?

Abbiamo suddiviso la parrocchia in settori da 500/1000 famiglie ciascuno (per un totale di 70mila abitanti). Il numero di comunità dipende dal lavoro che si fa nei differenti settori della parrocchia. Ogni tre mesi si fa un incontro delle comunità a livello di settore. Ogni settore può moltiplicare le sue comunità, ma è un lavoro lento. L’obiettivo è che tutti i cattolici entrino in una comunità.

Si può dire che la parrocchia è una comunione di piccole comunità?

È il traguardo cui si vuole arrivare. Ogni comunità opera all’interno del proprio settore in modo da generare sempre nuove comunità, ma non si perde di vista la parrocchia (due volte l’anno si fa un incontro tra tutte le comunità della parrocchia). Ho l’impressione che anche in Italia servirebbe qualcosa di simile.

Il contenuto dell’incontro della comunità é solo una catechesi degli adulti o dovrebbe dare alle persone anche la capacità di leggere la situazione in cui vivono?

Negli anni passati ci sono stati molti tentativi di insegnare ad agire nel sociale, ma il risultato è stato lacunoso. Il punto debole era l’esperienza personale di Gesù. Ci siamo accorti che per molti la fede è un fatto razionale, per cui ora ci preoccupiamo che uno torni a vivere la fede in modo vivo, col cuore, e si impegni a trasmetterla agli altri. Comunque, il confronto della propria esistenza con Cristo porta inevitabilmente a dei cambiamenti nella vita quotidiana, anche a livello di solidarietà sociale.

In Italia la gente chiede al prete più vicinanza, ma egli non può più arrivare ovunque.

La nostra parrocchia conta circa 70mila abitanti, di cui il 70% sono cattolici (trent’anni fa erano il 90%) e il prete non partecipa normalmente alle riunioni delle comunità. Queste però sottopongono al consiglio pastorale parrocchiale, dove sono presenti i coordinatori di comunità e di settore insieme con il parroco, i problemi che non riescono a risolvere. Inoltre, i preti lavorano insieme. Ogni settore (ce ne sono venti), dove il prete celebra l’eucaristia almeno una volta al mese, corrisponde a una parrocchia italiana e tutti i preti si alternano nella celebrazione, di modo che non ci sia la parcellizzazione della responsabilità.

Ma così la gente non finisce per vedere il prete solo come colui che viene a celebrare l’eucaristia?

Questo si supera perché il prete coordina tutta l’organizzazione pastorale. I fedeli si adattano subito ai preti che lavorano insieme, riconoscendo le caratteristiche di ciascuno e percependo quali problemi è meglio trattare con l’uno o con l’altro. Perciò è importante che i preti si confrontino tra di loro ed abbiano una posizione condivisa, senza che l’uno contraddica l’altro.

In Italia il numero dei preti sta diminuendo drasticamente e in prospettiva essi avranno sempre più il ruolo di coordinatori della pastorale. È meglio che a coordinare un settore sia un gruppo di preti, mettendo così in risalto il ruolo del presbiterio, ma staccandolo dalla gente, o un solo prete affiancato da un’equipe di laici?

Per noi è pacifico che i protagonisti della vita pastorale sono i laici, mentre i preti sono soprattutto animatori dei ministeri laicali e coordinatori a livello parrocchiale. Quando il prete vuol fare o controllare tutto, niente va più avanti. In Italia si sostiene che il prete deve essere responsabile esclusivo di un’area pastorale o parrocchia, altrimenti perde il legame con la gente. A me pare che alla gente non faccia problema interagire con uno, due o tre preti, se questi sanno maturare consenso sulle scelte pastorali. D’altro canto ormai ho più volte fatto l’esperienza di assentarmi dalla parrocchia, senza che ciò creasse problemi. Quando è fatta insieme, la pastorale va avanti anche con gli altri preti. I problemi ci sarebbero, se io seguissi un settore pastorale in modo esclusivo.

Se però un’équipe di laici lavorasse con lei?

In America latina sono i laici a portare avanti la pastorale, ma il prete deve esserci per celebrare i sacramenti e risolvere i problemi che si pongono al suo livello di competenza. Non è detto però che sia “quel” prete a risolverli, può essere anche un altro, perché tutti conoscono le situazioni.

In un lavoro d’équipe il prete si sente più sostenuto, anche psicologicamente, dagli altri confratelli o dai laici?

La maggioranza dei preti non vuole che altri preti mettano il naso nel proprio lavoro. I laici invece sono più interessati al confronto.

In ogni modo, il prete accetta più facilmente obiezioni e critiche dai laici. Credo di più in un’équipe pastorale formata da laici con la presenza di un prete. Se si creano équipe di soli presbiteri, il parroco responsabile deve avere l’attenzione di valorizzare le risorse di tutti. Mi dicono però che in Italia questo metodo incontra molte difficoltà.



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