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LA PANDEMIA DI CORONAVIRUS IN AFRICA

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L’11 marzo 2020 l’Oms (Organizzazione mondiale della salute) dichiarava pandemia il Covid-19. Ma il direttore generale, l’etiope Tedro Adhanom Ghebreyesus, constatava la lentezza della mobilitazione e il 18 marzo richiamava il suo continente a “svegliarsi” di fronte alla minaccia del coronavirus, preparandosi agli scenari peggiori. Il richiamo ha spinto le autorità di diversi paesi a mettere in atto le misure del caso o a potenziare quelle già prese. Però misure troppo severe, come la chiusura delle frontiere aeree, potrebbero diventare un boomerang perché gli Stati che le hanno chiuso le frontiere non potranno ricevere aiuti (esperti, medicinali e strumentazione). L’Oms propone perciò di creare dei corridoi umanitari. La maggioranza degli Stati sono ancora nella fase di contenimento, anche se in alcuni paesi come l’Algeria, il Senegal, il Sudafrica, il Burkina Faso, l’Egitto, si registrano casi di trasmissione locale. Ad oggi sono 42 i paesi interessati.

Questa pandemia evidenzierà ancora di più la mancanza di strutture importanti e la negligenza di chi governa. È chiaro che le misure igieniche, come il semplice lavarsi le mani, sono importanti, ma se l’acqua non c’è? È chiaro che l’unica misura per lottare contro la pandemia è la distanza di sicurezza. Ma quando si vive in spazi molto esigui, quando si viaggia stipati come sardine, quando si cammina nei vicoli stretti delle periferie delle megalopoli africane, come si fa a mantenere la distanza? È vero che stare in casa aiuta ad isolare il virus. Ma quando il lavoro è al 90 per cento di natura informale e, dunque, se non si lavora non si mangia, come si fa a restare a casa? Gli sciacalli poi sono sempre in agguato e alla prima crisi sono lì pronti a far lievitare i prezzi delle derrate alimentari. Come ci si nutrirà se lo Stato non interviene per bloccare almeno i prezzi dei prodotti di base? La risposta a queste misure preventive rischia di essere un privilegio per pochi.

Anche le grandi istituzioni internazionali, come il Fmi (Fondo monetario internazionale) e la Banca mondiale, saranno chiamate in causa. Infatti, con i loro programmi di aggiustamento strutturale, hanno continuamente spinto gli Stati a tagliare le spese nei settori sociale, scolastico e sanitario. La stessa Dichiarazione di Abuja del 2001, dove si richiedeva ad ogni Stato di assegnare il 15 per cento del budget nazionale alla salute per contrastare soprattutto il virus Hiv/Aids, la tubercolosi e la malaria, è sempre rimasto lettera morta.

Davanti a queste necessità e all’impossibilità di fare altrimenti, la gente si difende credendo a miti di natura popolare come quello di pensare che la pelle nera resiste al virus; oppure che mangiare aglio protegga dal contagio; e ancora che il calore potrà distruggere il virus. L’immaginazione popolare, si sa, è sempre molto prolifica di fake-news in tempo di crisi, quasi a voler esorcizzare l’impossibilità di arginare problematiche immense. Per ora gli scienziati scoraggiano tutti questi modi artigianali e invitano a non dar loro alcun affidamento ma piuttosto a seguire le norme dettate dai vari governi.

Altrove si reagisce in modo più violento, come se la pandemia fosse una nuova versione della colonizzazione visto che l’introduzione del virus è partita dall’esterno. Il caso più emblematico per ora è quello dell’Etiopia, dove il virus ha scatenato la xenofobia. Si constata infatti un aumento di incidenti nei confronti degli stranieri che ora sono chiamati “corona”. La gente inizia a scagliare contro di loro non solo insulti, ma anche sassi, oggetti vari, nell’intento di evitare una nuova “coronizzazione” (colonizzazione). In Sudafrica la paura del virus è diventata il pretesto per erigere una barriera di 40 Km con lo Zimbabwe, la cui frontiera comune è attraversata settimanalmente da più di 60mila persone in cerca di lavoro. In Marocco, una presunta idea di prevenzione fa comperare un grande stock di clorochina e nivachina, destinato alla Africa Subsahariana. Questo medicinale è un anti malarico che è entrato in linea di sperimentazione in Francia e Italia. Il suo basso costo lo rende facilmente accessibile ma non ci sono prove scientifiche che il trattamento funzioni. In Kenya si sono usate le maniere forti per disperdere i commercianti che continuavano a radunarsi nei vari mercati della città. La polizia è intervenuta con i gas lacrimogeni e manganelli per disperdere venditori e compratori.

Iniziative artistiche sono nate da cantanti in diversi paesi come in Congo RD, Senegal, Sudafrica, che producono clip musicali di sensibilizzazione, facilitando così la consapevolezza soprattutto dei giovani. Anche il mondo religioso si sta muovendo per contrastare il virus. A Nairobi i leader politici e religiosi hanno organizzato nel palazzo presidenziale una preghiera ecumenica trasmessa su tutte le reti televisive, radiofoniche e social. I partecipanti, ben distanziati, hanno fatto un appello alla pace sociale, all’unità e responsabilità nei comportamenti. A Kinshasa i responsabili delle confessioni religiose hanno creato una piattaforma comune di azione per sensibilizzare la popolazione sulla pericolosità del virus e seguire scrupolosamente le misure prescritte dal governo.

Le prossime due settimane – corrispondenti al periodo di incubazione –, saranno cruciali per constatare il blocco del virus oppure la sua esplosione. Per ora si contano 3318 casi – che triplicano ogni quattro giorni – e 89 decessi. Dati relativamente bassi, se confrontati con altre aree del mondo, ma che sono raddoppiati in tre giorni.



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