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L’AFRICA SUB-SAHARIANA TRA SPERANZE E DELUSIONI

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I primi anni del millennio sono stati caratterizzati da quella che è stata presentata come una rinascita dell’Africa sub-sahariana (Ass). L’ottimismo è dipeso da tassi di crescita relativamente elevati, tali da suggerire che qualcosa doveva essere cambiato. In effetti, era dalla metà degli anni ’70 che il reddito pro capite dell’area si riduceva o, nel migliore dei casi, aumentava in misura inferiore all’1%. Viceversa, dal 2000 al 2010 è cresciuto a tassi intorno al 2,5%. In sostanza, si è passati dal declino assoluto degli anni ’80 al ristagno degli anni ’90, per approdare alla ripresa successiva. 

UNA RINASCITA DEBOLE

Ma occorre valutare queste tendenze con cautela e attenzione. La cautela riguarda l’affidabilità dei dati in quanto le rilevazioni statistiche nei paesi in questione sono talvolta condotte in modo a dir poco approssimativo. Ciò non toglie che, con tutti i loro limiti, le informazioni disponibili suggeriscono che un cambiamento c’è stato. Il quadro d’insieme, peraltro, non esclude che vi possano essere differenze significative fra paesi nonché al loro interno. L’attenzione, invece, riguarda l’interpretazione dei fenomeni osservati. Più precisamente, la domanda che viene naturale porsi è se ci troviamo di fronte a una situazione momentanea o a un mutamento strutturale delle economie di questi paesi, magari dovuto a quei processi di integrazione economica mondiale – commerciale, produttiva, finanziaria – che vengono abitualmente ricondotti al termine “globalizzazione”. La domanda è tanto più pressante in quanto, dal 2015, la situazione sembra essere cambiata di nuovo: in quell’anno il reddito pro capite è cresciuto meno dell’1% per poi diventare negativo nel 2016.

GLI EFFETTI

Prima di soffermarci sulle cause di quanto è avvenuto sviluppiamo alcune riflessioni. La prima è che la crescita del reddito indica che alcune attività economiche sono risultate particolarmente redditizie. Sembra esserne una riprova l’aumento che, in anni successivi, si è osservato negli investimenti diretti provenienti dall’estero. Su questo punto torniamo più avanti.

D’altra parte, e questa è la seconda osservazione, alla crescita del reddito totale non è corrisposto un uguale aumento del reddito pro capite. I paesi in questione sono caratterizzati da una elevata crescita demografica per cui, quando si divide il livello del reddito per la popolazione, il risultato è una crescita pro capite più contenuta. Al riguardo occorre dire che l’aumento del reddito  pro capite dell’Ass può essere degno di nota alla luce della sconfortante esperienza di quell’area nei decenni precedenti ma non è particolarmente significativo in termini assoluti. Nello stesso periodo i tassi di crescita dell’Asia orientale erano di circa l’8%; in quella meridionale erano del 5%; nel Medio Oriente e Nord Africa erano di circa il 2,8-2,9%. L’unica area dove i tassi sono stati più bassi che in Ass è l’America latina nel primo quinquennio del millennio, con valori di poco superiori all’1%. In definitiva non si può dire che la crescita economica osservata in Ass sia stata in grado di elevare di molto il tenore di vita delle popolazioni di questi paesi, anche se la redditività di alcuni settori ha decisamente attirato l’attenzione del mondo degli affari.

Fin qui ci siamo limitati a valutare la crescita nei termini del reddito mediamente attribuibile a ogni cittadino, prescindendo da come esso venga effettivamente ripartito. Per valutare la distribuzione in Ass dobbiamo fare riferimento all’indice di Gini. Ricordando che tale indice è pari a zero in presenza di una distribuzione perfettamente egualitaria ed è pari a uno quando questa è del tutto disuguale, emerge chiara una generale sperequazione. Tutti i 47 paesi dell’Ass per i quali sono disponibili i dati, hanno valori superiori allo 0,30 – l’Italia, che proprio egualitaria non è, ha un valore pari a 0,31 – e 34 di questi hanno valori superiori allo 0,40. Ciò vuol dire che a beneficiare della crescita sono solo alcuni. A conferma di ciò, e ricordando tutte le cautele cui si è fatto cenno in merito all’affidabilità dei dati, si osservi (tab. 1) come i consumi nei singoli paesi si ripartiscano fra il 10% più povero e il 10% più ricco (in termini di reddito) della popolazione.

SPEREQUAZIONI

La questione solleva problemi non di sola giustizia sociale. Una distribuzione sperequata del reddito comporta che i poveri, che evidentemente spenderebbero tutto quello che guadagnano per soddisfare i loro bisogni primari, si trovano nell’impossibilità di effettuare acquisti e non possono, quindi, alimentare la domanda – quindi la produzione – di merci prodotte localmente. I ricchi si trovano in una situazione diversa. I loro redditi sono ben superiori a quanto occorre per soddisfare i beni primari. Quello che avanza solitamente lo spendono per acquistare beni “di lusso”, generalmente di provenienza estera. Così facendo, riducono le riserve valutarie disponibili per l’acquisto di quei beni di investimento che sarebbero necessari per accrescere la capacità produttiva del paese. Naturalmente, quello che i ricchi non spendono lo risparmiano. I risparmi, tuttavia, di per sé, sono una non spesa. Non generano domanda – e conseguente produzione – di beni. Verrebbe da concludere, quindi, che l’ineguaglianza distributiva è di ostacolo alla crescita economica. Rimane aperta una questione, però. Cosa ci fanno, i ricchi, con i loro risparmi? Malgrado il senso comune associ il risparmio agli investimenti, in generale non è questo il caso.

In astratto i risparmi possono essere impiegati in vari modi. Ci si possono acquistare titoli finanziari o li si può trasferire all’estero: spesso le due cose vanno insieme. Questi impieghi hanno il pregio di funzionare come i tradizionali beni rifugio (per esempio l’oro). In paesi politicamente instabili e dove l’incertezza economica è elevata, rappresentano un impiego sicuro per chi li realizza e non sono di lieve entità, specie in anni recenti (fig. 1). Non comportano, tuttavia, alcun acquisto di beni, dimodoché non esercitano alcun effetto positivo sulla produzione, sul reddito. In ultima analisi, non danno lavoro a nessuno, salvo qualche impiegato di banca. Il loro effetto sulla crescita è praticamente nullo.

In alternativa, i risparmi possono essere destinati all’acquisto di proprietà immobiliari. L’obiettivo di tali operazioni è speculativo: non si tratta di produrre alcunché, bensì di trarre vantaggio dalle variazioni di prezzo dei beni acquistati ovvero dalla posizione particolare che hanno nel contesto urbano. In pratica, si tratta di operazioni che determinano poca produzione, ma molta redistribuzione di reddito, a vantaggio di chi è già ricco. Il loro effetto sulla crescita è limitato, se non addirittura negativo.

L’ultimo possibile impiego del risparmio è quello di investirlo, vale a dire di utilizzarlo per la creazione di quanto serve – per esempio stabilimenti – per aumentare la produzione di beni in futuro. Dato che gli investimenti in questi paesi richiedono l’importazione di beni dall’estero, lo stimolo alla produzione – e alla crescita – locale può essere limitato nell’immediato. In prospettiva, tuttavia, gli effetti possono essere benefici. La nuova capacità produttiva può accrescere i posti di lavoro disponibili. I salari, a loro volta, si tradurranno in acquisti di beni, favorendo la crescita. Inoltre, con alcuni investimenti è possibile che si riduca la necessità di acquistare beni all’estero, con ovvi vantaggi per i conti con l’estero. 

Visti gli impieghi improduttivi cui può essere destinato il risparmio e, conseguentemente, gli effetti negativi che può avere sulla domanda di beni, quindi sulla loro produzione, una distribuzione del reddito che lo favorisca è generalmente poco opportuna non solo sul piano della giustizia sociale ma su quello della crescita. Tutto ciò porta a concludere che la crescita osservata negli anni passati non ha dato tutti i frutti che ci si sarebbe potuti attendere e, inoltre, ha beneficiato solo alcuni settori sociali.

LE CAUSE

Entriamo nel merito, a questo punto, di cosa ha determinato la crescita in questione. L’inizio del millennio è stato caratterizzato da un aumento significativo dei prezzi delle materie prime, prima fra tutte il petrolio. Questo effetto positivo, tuttavia, non deve nascondere un problema: nel caso dell’Ass, l’aumento delle esportazioni appare il risultato di circostanze che sfuggono del tutto al controllo dei paesi in esame. L’aumento dei prezzi internazionali delle materie prime è stato determinato da una domanda elevata proveniente dall’estero, specie dalla Cina. Così come i prezzi sono aumentati, sono successivamente diminuiti, sempre per circostanze che con l’Ass hanno poco a che fare. Ciò ha determinato quella caduta del reddito, nel 2016, di cui si è fatto cenno all’inizio. In definitiva, la crescita dei paesi in questione finisce per dipendere quasi esclusivamente dalle esportazioni.

La dipendenza dall’estero si manifesta in vari modi. Gran parte dei paesi basa le sue esportazioni – e la sua crescita economica – su pochissimi prodotti, senza puntare ad una diversificazione della produzione. Le esportazioni  si concentrano essenzialmente su pochissimi prodotti, spesso su uno solo. In queste condizioni, basta una relativamente piccola variazione dei prezzi internazionali perché la bilancia dei pagamenti ne risenta in modo significativo. Un maggiore sviluppo del settore manifatturiero permetterebbe di sostituire con prodotti locali quanto viene importato dall’estero, allentando in questa maniera la dipendenza dalle esportazioni e, più in generale, il vincolo dei conti con l’estero. Oltre ad assicurare posti di lavoro all’interno del paese, favorirebbe una crescita associata alla domanda interna anziché solo internazionale. Purtroppo non sembra questa la tendenza in atto.

Possiamo, a questo punto, riprendere la nostra riflessione sugli investimenti. Sono questi, infatti, che dovrebbero creare la capacità produttiva nel settore manifatturiero. I dati suggeriscono, tuttavia, che né le aziende locali né le multinazionali ritengono conveniente orientarsi in quella direzione. Gli investimenti che vengono realizzati sono rivolti fondamentalmente a potenziare le esportazioni, rinforzando un sistema produttivo che genera forti oscillazioni di reddito e limitati effetti sulla popolazione.

Ha poco senso accusare le imprese di fare solo quanto occorre per ricavare un guadagno monetario: questa è la regola del gioco in un’economia capitalistica di mercato. Il problema, semmai, è di ovviare a questa situazione mediante un intervento pubblico appropriato. Gli strumenti cui ricorrere esistono. Si va dai sussidi per chi investe in alcuni settori fino all’azione diretta di imprese pubbliche. Ovviamente ogni strumento ha i suoi pregi e i suoi limiti ma ciò non toglie che, qualora ve ne sia la volontà politica, un intervento è possibile.

QUALE AZIONE PUBBLICA?

Il problema che si pone, a questo punto, è capire perché proprio la volontà politica manchi. A ciò concorrono vari elementi. In primo luogo, la distribuzione del reddito riflette una ancor più sperequata distribuzione della ricchezza. Il potere economico è in poche mani e ciò, inevitabilmente, determina un accesso privilegiato al potere politico. A questo elemento “interno” si aggiunge quello proveniente dall’estero: l’incidenza che l’investimento di una multinazionale ha sul reddito di un paese sub-sahariano già, di per sé, può pesantemente condizionare le scelte dei governanti. L’accesso di questi a una quota significativa di tale reddito, tramite compartecipazioni o forme di corruzione, non può che accentuare l’accondiscendenza che essi hanno nei confronti di potentati stranieri. A fronte di questa situazione manca una elevata capacità di reazione da parte della popolazione. il basso grado di alfabetizzazione (fig. 2) e le gravi condizioni di povertà (fig. 3), infatti, precludono la formazione di una massa critica di partecipazione alle decisioni collettive.

Ai problemi qui delineati se ne aggiunge uno di politica economica. Prevale, in questi anni, un’ideologia – propugnata, purtroppo, da quelle istituzioni internazionali che dovrebbero adoperarsi per favorire lo sviluppo dei paesi in questione – in base alla quale l’intervento pubblico deve mirare solo a far funzionare i mercati. Questo vuol dire che le scelte economiche devono dipendere dalle sole convenienze espresse dai prezzi. La giustificazione sembrerebbe essere che i governanti sono inaffidabili e utilizzano male le risorse a loro disposizione mentre chi sceglie secondo convenienza economica finisce per non sprecare risorse.

L’apparente ragionevolezza di queste tesi nasconde varie questioni. La prima è che dalle scelte economiche vengono esclusi tutti quei beni che non hanno un prezzo che li renda convenienti. Si pensi alle reti fognarie o a quelle di distribuzione dell’acqua. Sono servizi fondamentali non solo per il benessere di chi ne usufruisce ma per la collettività nel suo insieme, in quanto favoriscono l’igiene e concorrono a ridurre la diffusione di malattie. Richiedono investimenti, tuttavia, che ben difficilmente risultano remunerativi quanto altri. La seconda questione è che scelte economiche basate sui prezzi le possono compiere solo coloro i quali abbiano denaro a disposizione. Viste le sperequazioni distributive di cui si è trattato sopra, molti sono esclusi dalla possibilità di scegliere alcunché.

La terza questione è che i prezzi non riflettono i costi sociali. Chi svolga un’attività economica ha interesse a ridurre i propri costi privati, quelli che, tipicamente, sono registrati sui libri contabili. Non ha, invece, alcun interesse a ridurre i costi che la collettività affronta a causa dell’espropriazione delle terre, delle migrazioni forzate, della distruzione dei suoli, dell’inquinamento di aria, acqua e terra. Al contrario, in una logica d’impresa, vi è piena convenienza a riversare i propri costi privati sulla collettività, trasformandoli proprio in costi sociali.

Dietro l’ideologia di riduzione degli spazi di intervento pubblico, si nasconde la negazione di una serie di compiti che, se non vengono svolti dallo stato non vengono svolti da nessuno. L’indebolimento dell’azione pubblica, inoltre, comporta che tutte quegli interventi volti a migliorare le condizioni di vita di tutti – dalle fogne alle scuole – non vengano realizzati. La persistenza di condizioni di povertà finisce per alimentare quella che è stata denominata la “trappola della povertà”: in assenza di interventi esterni, chi vive in condizioni di indigenza difficilmente riesce a permettere ai figli un destino migliore. Tutto ciò preclude l’effettiva partecipazione della gran parte della popolazione alle scelte collettive e rafforza il potere economico degli operatori privati nonché la loro capacità di influire sui governanti al fine di orientare l’economia a loro favore. Paradossalmente, l’ideologia che vuole limitare il potere pubblico finisce per rafforzarlo, anche se in modo perverso.

LE SCELTE POSSIBILI

La situazione delineata sembrerebbe non solo di stallo, ma addirittura che si rinforza nel tempo: la concentrazione di potere economico e politico favorisce proprio quei settori che tale potere detengono, accrescendone la capacità di controllo dell’economia. Gli effetti che ciò determina non sono solo quelli di arricchimenti spropositati pur in presenza di povertà. Questa situazione comporta la riduzione delle capacità, per gran parte della popolazione, sia di decidere del proprio destino, individuale e collettivo, sia di tutelarsi di fronte a decisioni economico-politiche dalle quali è di fatto esautorata. In pratica, ciò significa che viene meno la possibilità di difendersi da strategie economiche volte ad accrescere le ricchezze di pochi a scapito delle condizioni di vita di molti.

Tutto ciò determina una progressiva violazione di diritti umani fondamentali. Ne sono responsabili i governi dei paesi in esame, le imprese multinazionali – che si adoperano per lucrare sulla fragilità politica di quest’area – e le istituzioni internazionali. Ne sono altresì responsabili quei governi occidentali che favoriscono l’operato delle loro multinazionali, per esempio lasciando che all’estero queste possano agire in contrasto con quanto è lecito all’interno dei loro paesi. È il caso di condotte che comportano la cacciata di gente dalla propria terra, di impiego di materiali – per esempio concimi o anticrittogamici – vietati in patria, di impiego di polizie private per reprimere qualsiasi protesta.

Contrastare queste condotte è possibile. Si può imporre a chi investa all’estero – per esempio un’impresa la cui direzione sia in Italia – il rispetto di norme a tutela della dignità umana anche nel paese dove si va ad operare. Si possono evitare quegli accordi, con i governi dei paradisi fiscali, che permettono alle imprese multinazionali non solo di nascondere i loro guadagni ma anche di non fare emergere che sono esse le proprietarie delle aziende operanti nei paesi in questione. A ben vedere, si tratta di interrogarsi sulla normativa che, come rilevano organismi indipendenti, permette anche a paesi dell’Unione Europea di rendere opache le operazioni che le loro imprese svolgono all’estero. Come si è già detto, azioni di questo tipo possono non essere perfette ma è sicuro che escluderle non può che aggravare la situazione e legittimare lo status quo.

                                                                                                                

TABELLA 1: Indicatori di povertà e di distribuzione del reddito

tabella 1 l africa sub sahariana

Fonte: http://www.africaneconomicoutlook.org/en/statistics: Table 14

 

FIGURA 1: Fughe di capitali da 33 paesi dell’Ass. Flussi netti quinquennali (Miliardi di US $)

figura 1 l africa sub sahariana

Fonte: James K. Boyce and Léonce Ndikumana “Capital Flight from Sub-Saharan African Countries: Updated Estimates, 1970 – 2010”, Political Economy Research Institute, Research Report, October 2012, p. 8

 

FIGURA 2: Tassi di alfabetizzazione (% della popolazione di più di 14 anni)

figura 2 l africa sub sahariana

Fonte: https://data.worldbank.org/indicator/SE.ADT.LITR.ZS?end=2010&locations=ZG-1W-Z4-8S-Z7-ZJ&start=2010&view=bar

 

FIGURA 3: Percentuale della popolazione in condizioni di povertà multidimensionale nelle aree rurali (cerchio alto) e in quelle urbane (cerchio basso)

figura 3 l africa sub sahariana

Fonte: UNDP Human Development Report 2016. Human Development for Everyone, New York, 2016, p. 30



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