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IO, MISSIONARIO A DACCA PIANGO GLI AMICI ITALIANI

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Padre Riccardo Tobanelli lavora con i ragazzi di strada: «Fino ad ora verso di noi solo rispetto e tanta solidarietà. C’è tanta povertà, il raid vuole seminare terrore.

«In più di 30 anni che vivo in questo Paese - racconta padre Riccardo Tobanelli - ho incontrato spesso persone con una visione e un’interpretazione radicale della loro fede islamica. Con alcuni ci lavoro anche insieme. Eppure, non ricordo di aver mai incontrato gente fondamentalista o seguaci della ideologia Wahabi». Padre Tobanelli, saveriano originario di Muscoline, è un religioso che si preoccupa dei poveri tra i poveri: i ragazzi di strada, quelli che vengono abbandonati dalle famiglie nelle periferie di Dacca, tra linee ferroviarie e rifugi di fortuna. Tobanelli ha cresciuto tanti di questi ragazzi e alcuni di loro, oggi, lo aiutano nella sua opera di carità. Ma all’interno di questo cosmo variegato e sofferente il missionario saveriano aveva conosciuto quattro degli italiani poi rimasti vittime dell’attentato.

Ha paura, padre? Crede che possano essere uccisi altri occidentali?

«Paura non saprei. Mi pervade però un senso di desolazione e tristezza per gli amici che ho perso: Claudia, Cristian, Nadia e Adele. E per il Bangladesh, un Paese e un popolo che fan parte della mia stessa vita».

Lei si aspettava un attentato del genere? Si respirava un clima pesante a Dacca o no?

«Tensioni di vario tipo e attacchi isolati a gruppi etnici e religiosi diversi non sono nuovi in questo Paese. Negli ultimi tempi sono diventati più frequenti e organizzati, in modo da creare panico e terrore tra la gente. E tuttavia un attacco così brutale non me lo aspettavo. Che i terroristi si siano mossi in “franchising”, ispirati da un’ideologia di morte, è per me una cosa nuova».

Qual è la sua interpretazione dell’attentato?

«Penso sia stato un attentato codardo, motivato da una ideologia di terrore che mira a distruggere il tessuto sociale. Seppur problematico, è un tessuto con una certa coesione che nel tempo è riuscita a far sopravvivere e crescere questo Paese e questo popolo, nonostante circostanze drammatiche: guerra di indipendenza, alluvioni, colpi di Stato, densità della popolazione più alta al mondo, urbanizzazione e industrializzazione che procede a un passo vertiginoso».

C’è odio nei confronti degli occidentali?

«Io mi sento circondato da rispetto e stima. È incredibile il numero di amici e gente di religione islamica che mi conosce e che mi ha espresso la propria vicinanza in questo momento così triste. Mi pare che in generale gli espatriati italiani - siano essi missionari, volontari, cooperanti, imprenditori industriali, medici - sono sempre stati circondati da atteggiamenti di stima e rispetto».

Lei vive con i bambini di strada, in una comunità che accoglie quelli più poveri e disagiati: come li aiuta a sopravvivere?

«Con la collaborazione di ex-Tokai (“giovani adulti” venuti dalla strada e cresciuti con me) abbiamo organizzato alcuni centri di contatto e primo appoggio nei posti dove i bambini di strada si trovano: Kaworan Bazar, Tongi, Gazipur e Savar, ossia nodi e stazioni ferroviarie nella zona centrale e nord di Shaka. Si tratta di zone che sono pure le traiettorie dello sviluppo delle nuove aree urbane e industriali. Con questi «giovani adulti» ci siamo costituiti come Tokai Unnayan Society/Tokai Songho. Nel tempo siamo riusciti a realizzare anche una casa «paterna» a Nisham, al Nord di Dacca (è a settanta chilometri) dove circa 60 bambini di strada vivono con noi, studiano e imparano qualche lavoro».

La povertà in questi anni è aumentata?

«La povertà è diventata più crudele. L’urbanizzazione rapida, l’industrializzazione e la speculazione sulla terra stanno creando una povertà disumana. I poveri - gente che pur lavora sodo - devono spendere molto per vivere e, purtroppo, sopravvivono in situazioni di degrado umano e ambientale drammatiche».

  • MATTEO TREBESCHI, Corriere della Sera - Brescia, 7 luglio 2016.


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