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Verso la Sierra Leone con p. Girolamo Pistoni

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Vi ricordate, amici, che cosa successe nel gennaio del 1999 in Sierra Leone, piccolo Paese dell'Africa Occidentale? A quel tempo l'attenzione non era ancora assorbita dagli attentati in America, dalla guerra in Afganistan e dalla paura di un nemico invisibile, il terrorismo, che come un cancro si è insediato nel tessuto della nostra società. Freetown, la capitale di quel minuscolo Paese, era stata attaccata dai ribelli; la parte est della città, dove noi Saveriani risiedevano, divenne teatro di battaglie e di saccheggi.

Solo dopo tre settimane i soldati dell'Ecomog, la forza militare dei Paesi dell'Africa Occidentale, riuscirono a ricacciare i ribelli fuori dalla città, ma ormai il danno era fatto: 3.000 persone uccise, 5.000 sequestrate, migliaia di donne subirono violenze, 5.000 case bruciate, a più di 100 persone furono amputati gli arti.

Anche noi missionari restammo vittime di quella situazione. Il 12 gennaio fummo sequestrati da un commando di ribelli capeggiati da un soldato che portava al collo, come trofeo, le croci pettorali dell'arcivescovo di Freetown, anche lui fatto png1oniero poche ore prima. Furono per noi giorni terribili. Prima del sequestro passammo una settimana di inferno, visitati ogni giorno da briganti che venivano a saccheggiare la casa, ci minacciavano di morte se non consegnavamo loro soldi che ormai non c'erano più perché erano già stati rubati dai loro colleghi nelle precedenti visite.

Dieci giorni durò il sequestro, alla fine quattro suore di Madre Teresa di Calcutta furono uccise ed io fui ferito gravemente; mi salvai per miracolo, grazie alla cattiva mira di chi mi sparò e allo spirito di conservazione che mi suggerì di fingermi morto.

L'attacco a Freetown da parte dei ribelli era l'atto finale di una guerra che era cominciata nel 1991 e che ha portato in Sierra Leone solo sofferenza e povertà. Una guerra il cui scopo era il possesso dei diamanti e la conquista del potere da parte di poche persone che non hanno esitato quando, per raggiungere i loro fini, hanno sacrificato la vita di migliaia di persone innocenti.

Il 26 gennaio di quell'anno tornammo in Italia. Dovetti essere internato nell'ospedale Gemelli di Roma, ove rimasi degente per due mesi. Grato al Signore e a tutti quelli che con affetto e pazienza mi avevano assistito in quei due mesi, il 19 marzo uscii dall' ospedale.

Dopo otto mesi trascorsi in famiglia, nell'ottobre del 1999, p. Carlo Di Sopra ed il sottoscritto tornammo in Sierra Leone. Un gruppetto di Saveriani che erano rientrati qualche mese prima di noi ci stavano aspettando. Qualcuno ci considerava dei matti: "Dopo quello che vi hanno fatto, volete ancora ritornare là?". Però noi avevamo nel cuore non solo l'esperienza della sofferenza e della guerra, ma anche il ricordo della gente che ci aspettava; ci richiamava in Sierra Leone la voce del Signore che si faceva sentire attraverso il ricordo positivo delle tante persone che avevano accolto l'annuncio del Vangelo e con le quali avevamo condiviso molti momenti belli.

La Sierra Leone non era solo guerra e ribelli, ma anche gente con il desiderio di ricominciare una vita in pace.

Non tornavamo in un Paese ancora in guerra perché ci credevamo degli eroi in cerca di avventura e di rischio, ma per rincontrarci con le persone che avevamo lasciato e con le quali avevamo lavorato, gioito, pianto e intessuto un rapporto di amicizia che nemmeno la guerra poteva lacerare. Tante di queste persone le abbiamo ritrovate ed ognuna di loro aveva una storia di sofferenza da raccontare.

Ho trovato anche tanta serenità nei loro racconti: è l'espressione della grande capacità che i Sierra Leonesi hanno di andare oltre alle difficoltà, di non fermarsi a piangere, ma di continuare ad andare avanti. Per tante altre persone, che non hanno avuto la mia stessa fortuna, e che sono morte, abbiamo pregato.

Da quell'ottobre 1999 molte cose sono cambiate: c'è stato un grande sforzo per portare la pace nel Paese e il disarmo dei combattenti di tutte le razze è già iniziato, anche se non è stato ancora completato; momenti di entusiasmo, sono seguiti a momenti di scoraggiamento per la lentezza con la quale questo cammino procedeva. La ricostruzione del Paese, anche se lentamente, è ricominciata; molte persone che avevano cercato rifugio a Freetown e che vivevano in condizioni di miseria, stanno ritornando ai loro villaggi.

Certo ci sarà ancora molto da fare. Le cicatrici di una guerra durata dieci anni rimarranno vive nella società ancora per molto tempo: bambini ex-combattenti da recuperare, amputati da aiutare, soldati da reintegrare nella società, case da ricostruire e soprattutto una difficile riconciliazione tutta da inventare. Noi faremo la nostra parte nel luogo dove il Signore ci ha chiamato a lavorare.

Sicuramente, viste le condizioni, torneremo al Nord, dove si trovano tutte le nostre missioni. Come annunciatori del Vangelo siamo soprattutto chiamati a formare le coscienze, a iniettare in questa società, che nonostante la guerra ha tante cose buone, la linfa vitale del messaggio di Gesù, che può cambiare le coscienze e la vita delle persone che lo accolgono. Questa è la nostra speranza e sarà il nostro impegno.



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