Una storia come tante
Venanzio, il compagno di viaggio
Un giovane sconosciuto era entrato nella mia stanza e mi stava raccontando la sua storia. Una storia come quella di tanti altri prima di lui. Anche lui veniva da lontano, dalla foresta, era diretto alla lontana città di Kisangani. Contava di raggiungerla con il camion che ogni settimana partiva dal nostro mercato; nella notte qualcuno gli aveva rubato il denaro e adesso voleva tornare a casa.
Mi spiegava che gli occorrevano 1.000 zaire per un passaggio sull’autocarro che lo avrebbe trasportato per i primi 200 chilometri di strada; gli altri 200 doveva farli a piedi. Guardavo quel volto implorante e decisi che meritava fiducia.
Un marito affezionato
Quel giorno di 20 anni fa cominciò la mia amicizia con Venanzio che si prolungò quando, qualche anno dopo, arrivai proprio nella zona dove egli abitava. All’inizio andavo per visite brevi, di qualche settimana.
Ma dal 1990 mi stabilii in quei luoghi per ricostruire la missione che era stata abbandonata. Furono anni indimenticabili, con meravigliosi safari, settimane di cammino lungo i sentieri nella foresta. Quando arrivavo vicino al suo villaggio, Venanzio mi veniva incontro, con in mano un grande piatto e i pesci catturati durante la notte e arrostiti dalla moglie. Il suo dono di sempre.
Poi continuavo il viaggio in sua compagnia: lui davanti con i miei libri e i vestiti di ricambio nello zaino, e io dietro, ad arrancare su e giù per le colline della regione, il Manyema. Il giovane di quel primo incontro era diventato padre di famiglia e, soprattutto, un marito affezionato alla sua sposa. Risento ancora le parole con cui ricordò a un passante, incrociato per strada, i doveri coniugali:
“Ricordati che le donne sono più fragili di noi. È una vergogna vedere un uomo che cammina con le mani libere mentre la moglie è carica di pesi da portare, o la lascia sola nel lavoro dei campi...”. Ascoltandolo, ringraziavo Dio che poneva sulla bocca dell’amico parole così nuove per l’ambiente in cui viveva.
La guerra non è finita, ma l’impegno continua
Adesso Venanzio abita lontano dal suo villaggio, dove la furia della guerra ha imperversato.
Per quattro anni ha dovuto sopravvivere nella foresta, cercando di mantenere i suoi cinque figli, più i quattro lasciati dal fratello, ucciso dai militari. Forse, fra qualche mese, potrà tornare al proprio villaggio, ricostruirsi la casa, coltivare i campi. Forse... se arriva la pace.
La guerra non è finita, anzi, ha trovato la sua patria nell’Africa centrale. Ma non finisce neppure l’impegno di questi fratelli cristiani. Vogliono vivere la loro fede fino in fondo. E se il prete non può arrivare fino a loro, loro procederanno nel solco che insieme avevamo tracciato. L’estensione della parrocchia non consentiva di fare più di due safari nelle quattro direzioni cardinali: otto viaggi, della durata anche di un mese ciascuno.
Ogni volta ci incontravamo per alcuni giorni a leggere i testi biblici che nei mesi successivi sarebbero stati spiegati ai catecumeni e ai fedeli. In questo modo, tutti insieme, nelle 57 comunità disseminate nella foresta, attraverso i racconti dei vangeli di Marco e di Luca, percorrevamo lo stesso itinerario di fede.
Servi fedeli della chiesa
Così fanno ancora oggi gli amici africani. Il ciclone della guerra civile continua a devastare le regioni dei Grandi Laghi. Ma nell’imperversare della bufera qualcosa continua a resistere: il piccolo albero non si lascia spezzare. Le sue radici sono fissate al terreno, dove scorre l’acqua viva dello Spirito, che fa germogliare il fiore della speranza e il frutto della carità.
Quando il Figlio dell’uomo tornerà sulla terra, troverà ancora i servitori fedeli che lo attendono con la lucerna accesa nelle loro mani.