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Ho condiviso con p. Enzo un lungo tratto di strada negli anni giovanili, anni sinceri, pieni di entusiasmo e generosità, prima a Tavernerio (1970-1972) e poi a Parma per lo studio della Teologia (1972-1978). È stato un tempo in cui si cementano rapporti, sentimenti e decisioni importanti e si crea un legame di amicizia che sfida il tempo.

All’inizio degli anni ’80, appena arrivato in Bangladesh, le prime domande che mi nascevano dentro riguardavano il senso della mia presenza lì. La situazione economica era disastrosa. Per tantissimi la sopravvivenza era l’unico traguardo. Veniva spontaneo chiedersi cosa avrei potuto e dovuto fare: essere spettatore silenzioso o protagonista di qualcosa per migliorare? Predicare il Vangelo o aiutare la gente a tirarsi fuori dalla miseria?

Le case di fango con il tetto di foglie erano sempre esposte alla furia degli elementi naturali, la mancanza di un’adeguata nutrizione portava facilmente ad ammalarsi e a morire ancora giovani. A quei tempi, l’età media era stimata attorno ai 47 anni. I miei confratelli avevano già fatto la scelta di portare avanti iniziative sociali a favore della gente. Erano nate diverse Cooperative di artigianato, soprattutto per aiutare le donne i cui prodotti venivano poi venduti all’estero tramite il commercio equo e solidale. Erano attivi anche progetti per l’irrigazione dei campi, poi acquistati e distribuiti ai poveri.

Tutte queste iniziative rispecchiavano una volontà sincera di volere il bene della gente nella situazione in cui si trovava, senza pensare troppo al futuro delle loro anime. Ma il dilemma del modo di aiutare come missionari mi rimaneva dentro. Un giorno, insieme ad un confratello, raggiungo Calcutta per incontrare Madre Teresa. Pensavo che avrei avuto l’occasione di sottoporle la domanda alla quale non sapevo dare una risposta soddisfacente. Nella portineria della casa dove abitava, una delle sue suore ci chiede di aspettare. Torna presto dicendoci che la Madre era contenta di incontrarci. Ci invitava, però, ad andare in chiesa ed aspettarla lì. Solo dopo mezz’ora riceviamo l’invito di andare su un ballatoio dove la Madre ci avrebbe incontrato. Madre Teresa ci ascolta con attenzione. Apprezzava molto che noi fossimo venuti a lavorare in un paese povero come il Bangladesh. A un certo punto, io azzardo la domanda che mi stava più a cuore: “In Bangladesh siamo venuti per predicare il Vangelo, ma la gente non sembra interessata a sentire la buona novella di un Dio che vuol loro bene e desidera dare la salvezza. Loro ci chiedono da mangiare, da vestire, una casa, un lavoro. A questo punto cosa dobbiamo fare noi? Uscire dalle nostre Chiese e andare in mezzo a loro a cercare ciò che loro desiderano?”.

Madre Teresa non mi ha nemmeno fatto finire la domanda. E la sua risposta è decisa. “No! Voi come presbiteri dovete offrire a questa gente quello che di più importante avete da dare e cioè Gesù, la sua parola, la sua Grazia. Lasciate che alla Carità spicciola ci pensino le suore o i laici”. Detto questo, si alza scusandosi di non poter trattenersi con noi più a lungo, come se sull’argomento affrontato non ci fosse altro da aggiungere.
La risposta di Madre Teresa mi è sempre stata presente per tutti gli anni che ho continuato a lavorare in Bangladesh. Anche oggi mi viene in mente e non faccio fatica a vederne la profonda verità, nonostante le sfide che la povertà in Bangladesh continua a sollevare.

Certo, non possiamo dimenticare che l’Amore di Dio significa essere vicino alla gente, cercare di alleviare le loro sofferenze, lottare per la giustizia. È un dovere verso i poveri e un’esigenza della missione. Ma non si deve dimenticare che l’umanità, anche quella più bisognosa, ha bisogno di un cambiamento del cuore. E può farlo solo la Grazia di Dio e non i nostri aiuti materiali o i nostri sforzi di rendere consapevoli le persone. Quindi, va diffusa la Carità attraverso le nostre opere e la nostra testimonianza, ma non dimentichiamoci di diffondere anche la Fede. Perché, solo in un contesto di Fede e grazie alla Fede, anche la Carità non cade nel filantropismo, ma diventa un segno del Regno di Dio e di quella nuova vita che deve essere offerta a tutti.



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