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LA PAROLA
Uscito dalla sinagoga entrò nella casa di Simone. La suocera di Simone era in preda a una grande febbre e lo pregarono per lei. Chinatosi su di lei, intimò alla febbre, e la febbre la lasciò. Levatasi all’istante, la donna cominciò a servirli. Al calar del sole, tutti quelli che avevano infermi colpiti da mali di ogni genere li condussero da lui. Ed egli, imponendo su ciascuno le mani, li guariva. Da molti uscivano demoni gridando: “Tu sei il Figlio di Dio!”. Ma egli li minacciava e non li lasciava parlare, perché sapevano che era il Cristo. (Lc 4,38-41)

Era sabato anche quel giorno. Non più a Nazaret, ma a Cafarnao, città cosmopolita, crocevia di culture e religioni. Stavolta nella sinagoga non si limita a spiegare la Parola, la compie. Il primo segno è la liberazione di un uomo posseduto da uno spirito immondo, che gli ruba l’umanità. Sa chi è Gesù, prima di tutti gli altri, con una precisione cristologica da spaventare. “Taci ed esci da lui!”, gli intima Gesù. Solo la Parola ha il potere di smascherare le parole idolatriche, che s’illudono di imprigionare Dio nei confini di un concetto, di un’immagine. E la fama di Gesù si sparse d’intorno in un batter d’occhio.

Pare l’inizio di una grande epopea, costellata dalle imprese prodigiose di un profeta poco più che sconosciuto. E invece si è subito smentiti da un gesto che parrebbe quasi insignificante, letto il più delle volte come una guarigione minore: cos’è mai una febbre in confronto a un lebbroso o a un sordomuto! E poi fatto lì, in casa di Simone, fra quattro mura che odoravano di pesce e lievito di pane! Fors’anche un miracolo interessato, dicono superficialmente alcuni, perché le suocere, quando rimanevano vedove e sole, finivano per fare le serve nella famiglia del genero. E da giorni in quella casa non si cucinava più, nessuno era andato al pozzo a prendere acqua, e invano cercavano un tozzo di pane nella madia vuota.

Quella donna è lì, distesa su una stuoia, il corpo scosso da profondi brividi e la testa che le scoppia al minimo movimento. Vorrebbe alzarsi, provare a fare qualcosa, ma le braccia ricadono giù... Poi, giunge d’improvviso il rumore di passi e fra questi, inconfondibili, quelli del Nazareno. E lui lì, a chinarsi su di lei, a sfiorarle con le labbra la fronte bruciante e madida di sudore, a scostarne i capelli in cerca del suo sguardo. Senza fretta, come se non avesse nient’altro a cui pensare che non fosse quella donna febbricitante. Un ordine, gridato con forza, in quella sinagoga domestica, fa uscire da lei un demone muto che si chiama “non valere più niente”. L’arsura l’abbandona, rifiorisce il vigore sepolto, e d’un balzo è in piedi. Non restituita solo ai suoi doveri di donna di casa, ma soprattutto libera di servire. Il vangelo della diaconia risuona per la prima volta nel corpo di una donna, fuori dallo spazio sacro del Tempio.

Sí, perché è un verbo impegnativo quel diakonéô, in genere detto solo di Gesù (Lc 22,27) e delle donne sue discepole che l’hanno seguito dalla Galilea fino al Golgota (8,1-3). Servire è il verbo di Dio che abita la nostra fragile carne, facendone il suo santuario preferito, roba da fare invidia agli angeli. È il verbo del Figlio dell’uomo, che s’addossa con gioia il fardello dell’altro, che fa rifiorire l’umanità calpestata vestendola di eternità. È il verbo che rende tutti uguali e tutti grandi: uomini e donne, schiavi e liberi, giudei e greci. È un verbo che non ama investiture, né privilegi e forse, anche per questo, un po’ troppo temuto e dimenticato.



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