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Un ascolto capillare della base

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Per dare un giudizio definitivo sul Sinodo dei vescovi per la Regione Panamazzonica, che si è svolto a Roma dal 6 al 27 ottobre, non si può trascurare il Documento finale, approvato dai padri dopo tre settimane di intenso dibattito. Tuttavia bisogna andare oltre il testo, anche perché un Sinodo, e in particolare questo, per il modo in cui è avvenuta la preparazione e per come si è svolto, è processo assai più ricco di quello che si può mettere per iscritto.

Il Sinodo, infatti, è stato inaugurato da papa Francesco già il 19 gennaio 2018 a Puerto Maldonado, durante il suo viaggio in Perù, incontrando i rappresentanti dei popoli indigeni della regione. Già al momento della convocazione, il 15 ottobre 2017, Francesco aveva indicato lo scopo del Sinodo: “trovare nuove strade per l’evangelizzazione di quella porzione del Popolo di Dio, specialmente degli indigeni, spesso dimenticati e senza la prospettiva di un avvenire sereno, anche a causa della crisi della foresta amazzonica, polmone di capitale importanza per il nostro pianeta”. E a più riprese aveva detto che la crisi dell’Amazzonia simbolizza e rappresenta molto bene le altre crisi del pianeta: la crisi ambientale, con la progressiva distruzione della foresta e l’inquinamento della terra; la crisi economica, con un modello di sfruttamento selvaggio delle ricchezze, come se fossero infinite; la crisi sociale, con un condensato di disuguaglianze e violenze; la crisi culturale, perché si vuole cancellare una straordinaria pluralità di culture e tradizioni.

Il Papa, già allora, chiamava la Chiesa a rinnovare se stessa, alla luce di queste sfide, guardandole “dalla periferia”. Occorreva mettersi in ascolto dei popoli originari dell’Amazzonia, minacciati più di tutti. Costoro avevano dimostrato di saper vivere in armonia con l’ambiente. E per farlo, Francesco chiedeva di consultare non solo le chiese locali, ma anche di ascoltare direttamente la popolazione, soprattutto le comunità indigene. In tal modo, si voleva rafforzare l’azione della chiesa nella regione a difesa dei diritti umani, delle popolazioni autoctone e dell’ecosistema. Circa 100.000 persone (tra cui i membri di 172 etnie originarie, su 340 censite) sono state interpellate direttamente in una sessantina di assemblee territoriali sinodali, una dozzina di forum nazionali (su diritti umani, vita consacrata, comunicazione, ecc.) e quasi 200 colloqui di gruppo. Da questa consultazione è emerso che le principali minacce alla vita in Amazzonia provengono dai grandi progetti di costruzione di infrastrutture (dighe, strade...). Le risorse naturali (legname, metalli) sono sfruttate; i conflitti per la terra e l’inquinamento del suolo, delle acque e dell’aria causano ulteriori violenze come, per esempio, le migrazioni e l’omicidio dei leader popolari.

Da qui la richiesta fatta alla chiesa di essere maggiormente presente nelle comunità amazzoniche, in modo anche istituzionalmente riconoscibile. La chiesa diventa chiara alleata delle popolazioni native nella lotta per la difesa dei loro territori e culture. Sono state elaborate un gran numero di proposte (raccolte e sintetizzate nell’Istrumentum Laboris). Per esempio, la promozione di progetti di agricoltura familiare nelle aree rurali; riciclaggio dei rifiuti; adattamento dei riti liturgici alle culture indigene; creare un ministero ufficiale da conferire alle donne, che spesso coordinano le comunità cristiane.



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