Sette anni con voi a Salerno
Di recente mi è capitato di riprendere in mano un articolo su Matteo Ricci, il grande missionario gesuita vissuto e morto in Cina, che parlava della malinconia, quel sentimento di tristezza dovuto alla lontananza, al sentirsi solo, dimenticato dalle persone a lui più care, alla delusione dovuta all’impossibilità di raggiungere Pechino.
Tra gratitudine e malinconia
Pensando ai miei sette anni trascorsi a Salerno, mi assale un po’ di malinconia per il ricordo della comunità che mi è stata famiglia, delle tante persone incontrate che hanno condiviso la loro vita, fatta di gioie e dolori. Malinconia degli incontri nelle parrocchie, quelli vissuti in casa, dei tentativi compiuti nell’animazione missionaria e vocazionale, delle iniziative legate alle mostra interculturale, alla Festa dei popoli e all’accoglienza dei “senza fissa dimora”. Malinconia degli splendidi paesaggi disseminati in questa terra assolata.
Ci sono in me sentimenti misti di grande gratitudine, di gioia ma anche, come dicevo sopra, di malinconia per quanto sto per lasciare, per il distacco dai miei cari e amici.
La partenza per il missionario è il compimento della vocazione missionaria, è il compimento della mia vita dal punto di vista umano e cristiano.
Ogni partenza è una novità
Nel 2012, quando ho accompagnato quattro giovani per l’esperienza missionaria nelle Filippine, ho sentito forte dentro di me che il Signore mi chiamava a ritornare in missione, a farmi compagno di viaggio di quelle persone che Lui avrebbe voluto donarmi.
Mi è stato chiesto di servire il popolo delle Filippine e sono contento di partire e di ritornare in quella terra che già mi ha accolto nel 2004 e che mi ha sostenuto nei cinque anni della teologia. La partenza, che sembra essere un momento difficile da accettare e superare, è certamente anche una grande opportunità.
Ogni uscita porta con sé delle novità, una crescita, un mettersi in discussione e un necessario ricominciare. Essa costringe a fidarsi e ad affidarsi a Lui, lasciando tutte le certezze che, a volte, si possono trasformare in idoli mascherati.
Per Matteo Ricci la malinconia, che non ha nascosto e che apparteneva alla sua umanità, era necessaria, diventava la molla, lo stimolo a cambiare il proprio metodo missionario e la strategia.
L’uomo, un confine vivente
Sono convinto che quello che sto vivendo, che è proprio della mia umanità, nelle mani di Dio diventerà nuova linfa per la missione che mi aspetta. Ciò che ho potuto apprendere in questi anni a Salerno, dalla mia comunità, da ogni singolo confratello, dalla chiesa locale e dai tanti laici e giovani incontrati, sarà un tesoro prezioso da condividere nel contesto nuovo della chiesa filippina.
Mi piace concludere con una bella riflessione scritta dal teologo Romano Guardini.
“Ci sono quelli che sperimentano profondamente il mistero di una vita di confine. Non stanno mai decisamente o di qua o di là. Vivono nella terra di nessuno. Sperimentano l’inquietudine che passa dall’una all’altra parte. La malinconia è l’inquietudine dell’uomo che avverte la vicinanza dell’infinito. Beatitudine e minaccia a un tempo. Il significato dell’uomo sta nell’essere un confine vivente, nel prendere sopra di sé questa vita di confine e portarla fino in fondo.
Con ciò egli sta radicato alla realtà; è libero dagli incantamenti di una falsa immediata unità con Dio. L’atteggiamento più autenticamente umano è quello influenzato dal confine, l’unico adeguato alla realtà”.